Hai mai scritto una cartolina?
Inventata dagli austriaci, abbellita dai francesi, migliorata dagli svizzeri e poi diffusa ovunque; la cartolina ha quasi 150 anni. La primissima si chiamava Correspondenz-Karte e l’inventò un professore di economia. Carta color avorio e solo 20 parole per inoltrare un messaggio che costasse meno delle tradizionali lettere.
Poi son venuti i fregi e i ghirigori, e alla fine le foto delle città.
Gi Inglesi hanno contribuito con il divided-back, ovvero la linea verticale che separa l’indirizzo del destinatario dal messaggio vero e proprio.
Quante cartoline avete mandato nella vostra vita?
Mi ha sempre affascinato l’idea dello scritto personale a vista e mi son sempre immaginata il postino curioso che nell’imbucarle vi dà una sbirciata. Io lo farei.
Anche se di solito il messaggio è composto da frasi standard e banalità sul viaggio e sul posto. Però fra milioni e milioni di cartoline inviate ogni giorno di sicuro ce ne sarà una grondante d’amore folle o una super misteriosa, con solo un’iniziale a penna dalla grafia anticheggiante nella zona del testo. Chissà cosa vorrà dire.
A volte nei mercatini dell’usato e nei negozi di chincaglieria mi è capitato di adocchiare fra le vecchie foto in bianco e nero anche qualche cartolina ingiallita inviata chissà quando. Toccarle con le mani mi provoca una strana sensazione, come se stessi ficcando il naso in qualcosa di estremamente intimo. Comunque per ora ancora nessun messaggio figo. Continuerò a cercare.
Doveva essere davvero bello, all’epoca delle carte da lettere e delle stilografiche, l’idea di viaggiare e decidere di mandare un saluto da quel posto agli amici lontani, che forse non c’erano mai stati e non avevano idea di come fosse quel lungomare, quello skyline, quella chiesa o quella montagna gigantesca. C’è posta per te, che gioia, una foto meravigliosa che mi fa immaginare di calpestare in prima persona quella scalinata, un cielo diverso dal solito e dietro poche righe; una firma. Un tenue viaggio virtuale con la saliva di chi ci vuole bene. Della serie “ti ho pensato”, come si faceva con uno squillo dieci anni fa. Come è oggi un messaggio con foto su Whatsapp. Le cartoline però erano scritte a mano, avvolte dal fascino della loro materialità sottile, dalla bellezza che implicava l’inchiostro scuro, la grafia, il tatto, il profumo e la grana del cartoncino.
E poi diventavano segnalibri, oppure si collezionavano.
A Isera esiste il museo della cartolina, 35000 esemplari di diverso genere. Quanti saluti tutti nello stesso posto, etichettati.
Chissà se c’è una sezione per le cartoline demenziali. Tipo: “Roma di notte”, e un’immagine tutta nera.
Oppure una teca dedicata a quelle volgari pieni di tette e scritte ironiche. E una vetrina per quelle mai recapitate, andate perse chissà come.
Da piccola adoravo inviare cartoline agli amici e ai compagni di classe. Sapevo sempre cosa scrivere e chiedevo ai miei genitori se potevo infilarci dentro, fra una riga e l’altra, anche qualche disegno. Puntualmente le decoravo con almeno il profilo di due rondini stilizzate, libere e felici nel cielo bianco di cartoncino a due passi dai nuvoloni di scrittura in corsivo e pericolosamente vicine ai punti esclamativi.
Però mi ricordavo di inviarle sempre a fine vacanza, arrivando a casa degli amici prima delle cartoline stesse.
Nel corso degli anni ne ho scritte sempre di meno, ricevendone quasi nessuna, ma le considero ancora una chicca deliziosa, specie ora che le foto si inviano e si ricevono dai display.
Però anche la cartolina si è evoluta: più nessuna traccia di DNA del mittente, i francobolli ora sono stickers.
Vado ad imbucarne una, voglio mandare un saluto da Barcellona alla mia biblioteca del cuore!