Retrogusto
Dicesi retrogusto, sostiene Treccani, “quel gusto e odore che si avverte dopo avere inghiottito una bevanda o un cibo, e che è diverso dalle sensazioni iniziali”. Il dottissimo Sig. Treccani riporta pure qualche esempio: “il retrogusto amarognolo di un vino aromatico”, oppure “le mele, mangiate dopo il pesce, hanno un retrogusto sgradevole.” Giusto Sig. Treccani, la sua definizione, come al solito, non fa una piega. Ma consenta un peccatuccio di lesa maestà a questo suo devoto consultore. Glielo dico sottovoce: io, Sig. Treccani, aggiungerei qualcosa alla sua definizione. Ecco, non faccia così, non si alteri a sproposito, le espongo subito la questione, se mi lascia parlare: lei così definendo il termine retrogusto sottende che gli unici organi preposti a tale sensazione siano naso e bocca. Perché? Non le sembra, Sig. Treccani, che la vita offra sapori la cui recezione non passa per le papille gustative? Vedo che ha colto il punto. Non mi sorprende, l’umiltà di ascoltare i sottoposti è solo delle grandi menti. Accetti dunque questa mia orazione.
C’era una volta un mondo solido, dice Bauman. Il filosofo polacco non intendeva che un tempo i fiumi fossero ghiacciati e il sangue costantemente coagulato, bensì che i legami delle comunità fossero solidi e duraturi e che il tempo faticasse ad apportare cambiamenti nei consorzi umani. Per farla breve, si nasceva in un posto, si cresceva nello stesso e con le stesse persone, si sposava un/a solo/a uomo/donna e quindi si moriva, talvolta nello stesso letto dove si era nati. Pochissimi spostamenti, dovuti più che altro all’emigrazione. Ad ogni modo, dopo lo spostamento, tutto si stabilizzava in una nuova dimensione non molto differente dalla precedente. Le stesse città erano alla stregua di grandi paesi dove la vita scorreva nel quartiere, più che nella piazza centrale. Lo spiega bene Pratolini nei suoi libri ambientati nella Firenze prebellica.
C’è oggi un mondo liquido, dice lo stesso Baumann. Nessuna teoria dell’innalzamento del livello marino, solamente un mondo dove le persone circolano e di conseguenza i legami sono allentati. Le comunicazioni hanno reso tutto più veloce e leggero, compresi i rapporti tra le persone. Conosciamo tante persone, abbiamo strumenti per rimanere in contatto con tutti loro, più o meno lontani che siano, ma non stringiamo mai la vite fino in fondo. E’ questa la grande differenza con il passato: dove i rapporti erano pochi ed eterni ora sono tanti e superficiali. Fondamentalmente, in un mondo dove tutto corre, ciò che manca è il tempo. Lo speed date, l’assurdo gioco che ha lo scopo di far conoscere nuove persone attraverso una chiacchierata di durata limitata e predefinita, rappresenta bene il tutto: non c’è tempo di assaporare a fondo, saggiare la consistenza di chi si ha di fronte in uno sguardo, soppesare possibili affinità elettive in un gesto. Uno sfarfallio di sopracciglia può bastare. Just married.
E il retrogusto? Già, che ne è del retrogusto in una società che divora i rapporti senza masticarli? E’ scomparso? Tutt’altro, non è mai stato così vivo come in questa società delle viti strette a metà. Conoscete una persona, che so, fate un corso assieme o magari è nel vostro villaggio vacanze, parlate, i soliti convenevoli, non vi ponete troppe domande perché sapete già che è un rapporto destinato a finire. Magari non vi pare neppure simpatico. Sicuramente non fa per voi. Portate avanti la cosa in stile relazioni di buon vicinato, insomma. Poi il penultimo giorno, incrociando il tale tra la lezione di autocontrollo e quella di social marketing, vedete che impugna un libro: è il vostro testo preferito. E’ il penultimo giorno e vi sentite più leggeri, le parole vi escono più fluide. Fate una domanda, ne ricevete un’altra, e voi ribattete e allora vi accorgete che le risposte dell’altro sembrano dettate dalle vostre labbra. Si, pensate, è proprio ciò che volevo sentirmi dire. E pure le domande, oh si che meraviglia, pure le domande sono confezionate sulla vostra taglia e le parole escono così bene… Chi ci avrebbe mai scommesso un euro su costei, dimmi te.
Ma intanto è l’alba dell’ultimo giorno. Domani tu sarai a Rovigo e il tuo potenziale amico del cuore pasteggerà ad olive ascolane nel cuore delle Marche. Si, domani correrai a chiedergli l’amicizia su Facebook e per qualche settimana i Mi piace scorreranno a fiumi tra la tua bacheca e la sua. Ma il tempo utile è passato. Peccato non averci pensato prima. Peccato aver bollato quel tizio dalla parlata simil-romanesca come persona di scarso interesse. Peccato non ci sia più tempo. Peccato per quel retrogusto che ti ha lasciato. Questo rimane: la sensazione di cadere nella banalità delle relazioni a colpo di fulmine, nel folle modo di pensare odierno dove le persone si soppesano come facevano i medici con i nostri testicoli alla visita militare. Come se la differenza tra Achille e Don Abbondio fosse in un par di palle.
Gentile Sig. Treccani, non abuserò della sua pazienza oltre. La prego, se del mio discorso astratto ha recepito e condiviso qualcosa, di farne tesoro. A questa mandria di seguaci di finti kapò tramutati in chef sui teleschermi spieghi che il retrogusto non è solo nel risotto, ma anche nelle parole e nei gesti di chi li circonda. Nei rapporti umani il retrogusto è di un solo tipo: amaro. Perché non c’è dolcezza in un addio sibilato sul più bello. La mente vaga all’indietro, cerca le situazioni, poche, dove sarebbe stato possibile osare di più. Ma è solamente un’illusione. Il retrogusto della vita è un’illusione. Dura un giro di giostra. Il tempo di abbozzare un nuovo rapporto. Se le è rimasta una riga disponibile, Sig. Treccani, lo scriva.