Il Brasile che non ti aspetti
Il Brasile è l’umidità che si appiccica alla pelle come in una serra, la terra rossa coperta dai canneti, il sole all’orizzonte grande come una palla che si getta nel verde.
La città spunta tra i colli, alta verso il cielo del mattino, grigia come i suoi grattacieli e colorata come le case dei quartieri popolari. Terribile e affascinante nei suoi contrasti, tragica e comica nelle sue realtà. In questa selva de pedra non c’è un centro propriamente detto, distinto dalla periferia. Quartieri ricchi e favelas si compenetrano in un groviglio inestricabile, indissolubile. Si cammina in una zona “bianca” e dietro l’angolo spuntano baracche fatte con l’immondizia. Nei marciapiedi siedono i moradores de rua, riempiono la strada, la controllano. I benestanti che passano nelle auto dai vetri oscurati mettono la sicura e alzano i finestrini.
São Paulo può offrirti il paradiso ma anche l’inferno. Tutto dipende dal conto in banca e dal colore della pelle. Nelle enclave ricche si vive, si lavora, si studia, ci si diverte in modo esclusivo. Gli uomini della sicurezza sono ovunque, per accedere bisogna avere una motivazione valida ed esibire un documento come all’aeroporto. A meno che tu non sia uno di loro. Perché se sei uno di loro l’odore dei soldi te lo porti addosso. Sei bianco, sei disinvolto, il mondo è ai tuoi piedi. Al ristorante i garzoni ti scostano la sedia, l’autista apre per te la porta della macchina e progetti di comprare casa a Miami. Non ti mescoli con la gente dei ceti più bassi, non esci dalla tua zona di confort. Hai studiato nelle università migliori e per te il sogno è americano o europeo. Ascolti preferibilmente musica internazionale e in lingua inglese. Quella popolare, dei bassifondi, la lasci a chi ha meno di te. Stai tanto in alto che nella tua cerchia c’è chi si sposta in elicottero. Non esistono problemi che i soldi non possano risolvere. O almeno così pare.
Ma la realtà ti aspetta all’angolo, ed è una doccia fredda.
E’ sempre una pena trovarsi a faccia a faccia con la povertà, ma con la miseria è come uno schiaffo a mano aperta. La miseria ha il volto sporco, stanco e vecchio anche a dieci anni. I capelli arruffati marroni come la maglietta, i piedi scalzi e i modi bruschi, duri come la vita che si vive. Qui è impossibile non avere un’idea di cosa sia, perché São Paulo la miseria te la sbatte addosso. E a ben poco serve girarsi dall’altra parte.
Camminiamo in Avenida Oscar Freire, una delle strade più lussuose della città, tra sventolate di Chanel n.5 e borse di Louis Vuitton, dove pure i cani portati a passeggio sono posh. E tra la folla spunta lei.
Ha una maglia a righe bianche e nere che le scivola sulla spalla destra, lasciandola nuda. Porta pantaloni un tempo rossi, lacerati ed è scalza. Ma ha una borsa rosa di Dolce e Gabbana, di quelle che ti danno nelle boutique dopo un acquisto costoso e che hanno il nastro di raso al posto dei manici. Lei ci ha riposto con cura dei bicchieri usati di plastica bianca. Cammina naso all’aria, gli occhi con le borse indugiano nelle vetrine dei negozi, nelle insegne luminose, nei modelli di alta sartoria. Sembra un fantasma che si aggira tra l’indifferenza generale. Ma io non riesco a smettere di guardarla mentre a testa alta si prende la sua libertà. La libertà di fingere che la vita sia rosa come la borsa in cartone che stringe orgogliosamente sotto il braccio, la libertà di girare in un quartiere che sovente la polizia “ripulisce” dai tipi come lei. E di tipi come lei ce ne sono tanti, troppi. Vivono dove capita, con quello che capita, appoggiati ai muri pieni di graffiti che le bande tracciano per marcare il territorio.
Questo non è il Brasile che si sogna, il Brasile che si vuole a tutti i costi perché la vacanza la si è pagata a caro prezzo e deve corrispondere al falso immaginario creato ad hoc da pubblicità mistificatorie. Niente spiagge, niente mulatte in bichini ad offrire sorrisi splendenti ed occhiate maliziose. Niente caipirinhas all’ombra di una palma. Se si frequenta l’alta società di mulatti non c’è nemmeno l’ombra. I neri fanno perlopiù mestieri di servizio mentre gli indios stanno lontani dagli occhi e lontani dal cuore, nelle riserve. A consolare rimane la natura che sembra volersi riconquistare centimetro per centimetro la distesa di cemento, il cibo sano che viene dalle campagne, lo spirito di un popolo che non si è dimenticato il valore delle relazioni umane. Bastasse questo a cambiare le sorti di una nazione il Brasile dominerebbe il mondo, perché di potenziale ne ha parecchio. Peccato che quel potenziale sia sfruttabile da pochi.
Si stanno investendo miliardi per completare gli stadi in vista dei mondiali di quest’anno, si lavora ventiquattro su ventiquattro per rispettare le scadenze e nel frattempo qualche operaio muore, ché la sicurezza sul lavoro non è una priorità. Le proteste in Avenida Paulista continuano, gli attivisti invitano al boicottaggio. Ma il governo ha ordinato l’avanti tutta, perché c’è anche da pensare alle Olimpiadi del 2016. Data l’inefficienza dei trasporti pubblici a giugno verranno messi in circolazione dei nuovi treni. Ma saranno in funzione solo durante la Copa, per garantire la mobilità del gran numero di spettatori attesi. E i brasiliani? – penso mentre l’aereo decolla e getto un’ultima occhiata perplessa a questa terra dolorosa e affascinante.
Tra i film in programma per il volo c’è anche un documentario che sembra avere la pretesa di spiegarti le verità di questo Paese. Intervistano uno dei tanti, rigorosamente bianco, in doppio petto e con i capelli brizzolati, freschi di parrucchiere. Sta davanti a gru e betoniere e non lesina sorrisi di plastica. “Dico ai miei figli che vorrei appartenere alla generazione del 2020, perché nel 2020 questo sarà il Paese delle meraviglie”. Certo, probabilmente per chi nel Paese delle meraviglie ci vive già. Staremo a vedere. Nel frattempo il resto della popolazione farebbe meglio a sperare che la Fortuna per quell’ora inizi a vederci almeno un po’.