Be italian
Imbocco Via Rossi chiedendomi se sia possibile, se la legge, insomma, me ne consente il transito. Telecamere non ne vedo e così, incerto ma non timorato, mi infilo nel centro storico con la mia auto, quindi volto a destra in Via Neri in cerca di un parcheggio, ma non trovo alcun posto libero e opto, dunque, per una ulteriore virata a destra in una via di cui non conosco il nome.
Apperò. Appena svoltato a destra, magicamente mi appaiono cinque, sei, forse sette e più posti dove parcheggiare l’auto. Non sono più un parcheggiatore di primo pelo e subito la cosa mi pare strana. Perché tanti spazi liberi in questa strada, mentre in quella adiacente le macchine si adagiano l’una sul parafango dell’altra? D’altro canto perché, ammettendo che la sosta qui sia vietata, almeno una dozzina di macchine vi sono parcheggiate? Mai chiamare in soccorso il pubblico esempio in questo paese, si finisce zoppi o, peggio, gamberi. Per giunta fuor d’acqua. Scendo e cerco conforto nelle righe, ma non ho fatto archeologia e la stratigrafia delle vernici mi risulta ostica. Cerco un po’ di blu dove il blu non c’è. C’era, questo maledetto blu, ma l’imperfetto non è tempo per municipali & Co. E’ tardi. Che dire, speriamo di non trovare conti correnti alla mia gentile attenzione. Ma no, penso, in fondo è una robetta d’un quarto d’ora.
Scendo e cerco conforto nelle righe, ma non ho fatto archeologia e la stratigrafia delle vernici mi risulta ostica
Così, tra un sessantenne che fa la fila per il figlio, un sessantunenne che la fa per se stesso e due neodiplomati che si atteggiano come coloro a cui nessuno ha mai scritto in faccia giocondo, ma solo perché la scritta “No future” occupava già tutta la fronte, mi dirigo alla macchinetta sputa-biglietti numerati. Ci dev’essere un errore, pronuncio ad alta voce. Il tabellone luminoso dice 38 e io ho appena ricevuto il 3. La signora moldava mi scruta e mi fa pesare la sua maggiore esperienza spiegandomi, con sufficienza, che dopo il 99 si riparte da 1. Superato a est, decido di andarmene. Non ho con me il sacco a pelo, dico a una quarantenne male in arnese. Questa sorride e mi mostra una vetrata vista lingua tra incisivo e molare. Se non avesse vissuto l’adolescenza negli anni novanta, questa signora avrebbe avuto il suo perché.
Non me la sento di buttare via una mattinata intera, qualcosa devo pur combinare. Mi gratto la barba e guardo oltre la strada: c’è un’agenzia interinale. Bah, penso, vediamo un po’ che si dice da quelle parti. Attraverso la strada sulle strisce e una macchina lontana per lo meno una cinquantina di metri scala dalla quinta alla prima, attende il mio passaggio e quindi suona il clacson all’impazzata nel tentativo di allentare l’immane carico di frustrazione sul portapacchi. Non mi è concesso il contraddittorio con la gentile signora che non conosce marce diverse alla prima e alla quinta e non mi è concesso nemmeno di parlare con la bella bionda dietro la scrivania dell’agenzia interinale in quanto un foglio stampato con word a carattere Times new roman 48 mi spiega che l’agenzia oggi rimane chiusa al pubblico e, si sottende, la bella bionda che vi sta sorridendo da dietro la scrivania non è che un ologramma. Giustificato. Il corpo del testo 48, intendo.
Una mucca giuliva mi osserva da una rivista patinata piazzata nella vetrina laterale di un’edicola. “Quote latte: uno scandalo all’italiana” leggo a fianco della frisona. Che significa “all’italiana”? Significa che italiano è sinonimo di corruzione, malfunzionamento, menefreghismo. Significa che non esportiamo più pizza, mandolino, vino in fiasco e tovaglie a quadrettoni bianchi e rossi (ovvero felicità), significa che non esportiamo più manzi da monta ad uso di signore straniere (ovvero invidia), significa che non esportiamo più storie di meccanici modenesi assurti a geni della tecnica (ovvero emozioni). Significa, soprattutto, che ci pigliamo per il culo da soli, forse perché è insito in noi quel panem et circenses che mandò in rovina i romani, forse perché abbiamo delegato troppo a pochi, sicuramente perché abbiamo smesso di credere nel futuro, nella nostra genetica da poeti, santi e navigatori e ci crogioliamo nell’ammirare il confronto all’americana, il patto alla tedesca e il pratino all’inglese.
Che bel sole. Mi siedo su una panchina e lascio che i raggi mi stirino la pelle del viso, ma poi penso alla mia macchina posteggiata non saprei dire come e allora mi incammino.
Ma prima devo fare una cosa, almeno una in questa inutile mattina. Passo in rassegna la bacheca dell’edicola. I quotidiani infieriscono, le riviste atrofizzano, i fumetti tergiversano, Le Ore istigano, le figurine Panini costano troppo. Tanto vale. “Vorrei L’allevatore“. Dalla faccia stupita dell’edicolante si direbbe che nessuno gli aveva mai chiesto quella rivista con la mucca in copertina.
L’unico sorriso è bovino.
La quarantenne con finestra vista lingua?
L’unico sorriso (che voglio ricordare) è bovino.