L’oscuro mestiere
Le parole scorrono sotto le dita, appaiono sullo schermo, si accavallano, si rincorrono. Narrano. Di cosa, poi? Eventi, notizie, situazioni, emozioni. Il foglio le riceve, le accoglie con benevola accondiscendenza quasi fosse un grembo materno. Vive di esse e per esse, nella frenetica attesa del colore nero che si imprime a fuoco sul bianco, viceversa immacolato e sterile.
Le osserviamo susseguirsi le une alle altre, misteriche, seducenti. Una alla volta, rigorosamente in fila indiana, forme primigenie che si presentano alla mente. Un albero. Un fiore. Il mare, là fuori. Le lasciamo andare, nubi che si addensano all’orizzonte, specchio di un turbinare convulso fra gli anfratti burrascosi dei nostri spiriti violati.
E quando l’anima trema, le parole ci terrorizzano. Impigliate sotto le dita, in quello spazio infinitesimale sospeso fra la pelle e i tasti. Un momento, una stasi, una parentesi che dura una vita. È un mondo che si capovolge, certezze alla deriva, la mancanza assoluta di appigli sotto i piedi, sotto quei piedi che – nudi – bramano la sabbia del mare, mentre varcano strade di cemento e smog.
Accade. Come accadono le vite fuori dalla finestra. Le une uguali alle altre. Sali e scendi, prima io, meglio tu. Hai visto com’è vestita quella? Stasera gioca l’Inter a San Siro.
E qualcosa si spezza, si dissolve, al lumicino tremulo di una preghiera sussurrata a mezza voce.
Non farmi questo. Cosa ne sarebbe di me? Non portarmelo via, non esisterei, senza.
E la preghiera si fa disperazione, accanimento, rabbia. Ma questo il foglio non lo sa. Esso non dice, non sparge speranze. Novello oracolo di codici impilati, attende, mentre i mondi si accavallano, si sommano, si inseguono.
Li osserviamo, desiderosi di una disincantata lontananza, sempre febbrilmente consapevoli di quel passo, quel semplice passo che oltrepassa il limite. Un solo tentennamento e scompariamo. Sangue e ossa e pelle che si dissolvono, mentre le dita vanno da sé, e le immagini prendono il sopravvento, ci trasformano, ci svuotano. Mute crisalidi, vuoti sacrifici ai nostri personalissimi dèi, attendiamo bramosi il consueto miracolo. Oh se solo lo si potesse riprodurre a comando! Se solo non esigesse tanta sofferenza! Morire. Per quel foglio bianco. Sull’altare dei nostri figli immaginari.
Accade. Come accadono le vite, laggiù da qualche parte a metà fra sterno e cuore. Vere, men vere, vado io, rimani tu. L’ho vista partire dai binari del treno. Stasera, arrosto di cervo al banchetto del re.
E allora qualcosa rimane. Al fuoco di quel lumicino tremulo, la ferma certezza di non poter né voler essere altro, se non parole in divenire, frutto dell’oscuro mestiere del narrare, per il gusto del narrare. Perché altro non conosciamo, né sappiamo fare…