Calvinismo e capitalismo
Riccardo Santelli, dottore in scienze economiche, titolo che aveva acquistato da una università americana, di quelle che fanno pubblicità sui giornali, era un industriale di minuterie metalliche. Il tipo nazional popolare capitalistico, fatto da sé, di origine contadina e poco avvezzo agli studi, che non aveva finito nemmeno alle superiori, ma di grande competenza in fabbrica.
La moglie era una bellona, non molto dotata di esprit de finesse, ma ricca di appeal carnale, che peraltro non mostrava di voler celare. In realtà questa era la seconda. Perché la prima era contadina come lui e quando Riccardo si era potuto permettere la grossa Mercedes aveva capito che la moglie avrebbe stonato con la plancia e aveva preso la decisione della separazione, giustificata con la necessità di espandere la propria personalità, e grazie a Dio i soldi non mancavano per farlo senza litigi e lungaggini.
quando si era potuto permettere la grossa Mercedes aveva capito che la moglie avrebbe stonato con la plancia e aveva preso la decisione della separazione
Non volevano fare quella vita, almeno non in quel modo. Santelli era appena uscito dalla sezione distaccata della Confindustria provinciale dove si era tenuto un mini convegno tra banche, società di revisione e imprenditori sul tema annoso e non risolto della sottocapitalizzazione delle piccole e medie imprese. Un tema stranoto, le imprese sono troppo piccole, non possono andare in borsa, non possono emettere titoli a reddito fisso, molte ancora in realtà vivono perfino con lo scoperto di conto.
Certo è la dimensione che fa la differenza, ma uno degli oratori, il solito professore rompiballe bocconiano, aveva fatto una mezza sparata sullo spirito calvinista, una specie di credo fatto di dio e lavoro, in cui tutto è riversato sull’impresa, segno positivo del signore che ti offre la fortuna su questa terra perché te la sei meritata con l’anima. Il denaro in questo mondo prima del paradiso nell’altro. Almeno così aveva capito. E quel che aveva capito gli aveva fatto scuotere il capo, perché il bocconiano aveva concluso che proprio la mancanza di spirito di questo Calvino impediva agli imprenditori di investire nelle aziende preferendo portare i soldi altrove per investirli in attività liquide o in immobili. Magari in Svizzera, d’altra parte aveva capito che anche Calvino era scappato lì quando si era trovato nei guai. Gli pareva tutta una grande sciocchezza, perché era lo Stato a non aiutare le imprese: Loro, gli imprenditori, ce la mettevano tutta, sudavano e pagavano dalla mattina alla sera.
Rientrò in azienda per chiudere. C’era anche il figlio maggiore Mario. Gli disse: “Mario, hai da fare domani?” “Dimmi, papà, che ti serve?” “Ok, se sei libero domani si va a Lugano perché mi pare che questi banchieri svizzeri fanno i furbi. Ma dove si devono portare i soldi per non essere fregati?”