As.Solo: melodia di un uomo e del perdono
Era sempre stato convinto vi fosse una sottile poesia dietro ogni tasto laccato del vecchio pianoforte a muro. E quante volte si era ripromesso di cogliere l’attimo? Trovare la predisposizione d’animo per afferrare quell’anelito di spirito. Sedersi. Accarezzare la tastiera consunta. Lasciare che le dita assaporassero la consistenza porosa del legno, il suono ovattato e dolce delle corde. Morire. Forse.
Quel tempo non era mai arrivato, sebbene egli avesse atteso con pazienza, per tutti quegli anni.
È questo che gli uomini chiamano rimpianto?
I raggi morenti di un sole stentato accarezzavano il giardino oltre il portico. C’era trepidazione, nell’aria. Quella sensazione di incompletezza che decide di porre fine a sé stessa. L’emozione di una precoce primavera in cerca di sfogo. E in lui? Cosa c’era dentro quel vecchio cuore solitario?
Infine, si era seduto davvero. Il suono del si bemolle – accarezzato, tamburellato, martellato fino quasi a farsi male – aveva rispolverato antichi ricordi, fatti di zucchero e caffè, prati verdi, scogli neri accarezzati dal mare. Era sempre stato così doloroso? O invecchiare aveva peggiorato le cose? No, la vecchiaia non c’entrava nulla con quella faccenda. Invecchiare è fisiologico, umano, comune. A questo non poteva sottrarsi. Non che non l’avesse voluto – chi non lo vorrebbe? – ma in fondo, poi, aveva davvero importanza? No, la vecchiaia non c’entrava davvero nulla, questa volta. Piuttosto, doveva avere a che fare con quella cosa chiamata “perdono”. Ecco, con quello proprio non gli riusciva di venire a patti. Anche adesso, mentre il si bemolle si adagiava nell’amato la –“…minore, l’accordo deve essere minore. Un la minore ti apre il cuore. Se riesci, sopravvivi; il resto è polvere…” – quel pensiero strappava una smorfia alle sue labbra.
Aveva sollevato le dita, come un ragazzino colto in flagrante. Le sue, di dita, invisibili ed eteree, gli avevano accarezzato una spalla. Non si era voltato. Non un cenno di accondiscendenza per quel desiderio, non un movimento che tradisse quanto desiderasse rivedere l’amato viso, i sottili capelli ramati, gli occhi chiari come fuochi fatui nell’incarnato pallido. No, non si era voltato, mentre il silenzio riempiva di echi della vecchia casa. Ma le sue mani avevano tremato, scivolando ad adagiarsi sui tasti ora immoti. Rughe grinzose solcavano la pelle chiazzata, sotto il suo sguardo inclemente. Non sarebbe dovuto partire.
«Sarei dovuto restare.» aveva mormorato, a se stesso.
La presa delle dita invisibili si era fatta un po’ più salda. Un movimento leggero, e lei era di nuovo al suo fianco, seduta sullo sgabello laccato. Le aveva fatto spazio, mentre cercava con la mano sinistra il pomello sul suo lato, retaggio di antiche abitudini dure a morire. A lui, in fondo, erano sempre toccati i bassi.
«Dovevo restare.» aveva detto, con tono più deciso. Le dita invisibili avevano lasciato la sua spalla. Il suono cristallino di un do fantasma aveva riempito l’aria polverosa della vecchia casa. L’immaginazione iniziava a giocargli brutti scherzi. Eppure, era solo colpa sua. Solo sua.
Se non fosse andato via, se non avesse ceduto all’impulso primigenio di voltarsi e scappare. Gli orrori della guerra. I fori dei proiettili nell’intonaco scrostato delle mura. Il sangue. Tutto quel sangue, Dio mio! Quanto può sopportare un uomo? E così era partito. Non aveva più alcun senso recriminare.
«Dovevo restare per te.» risolse infine, con la voce pensosa di chi accarezza davvero un’eventualità, per poi scacciarla via come si scaccia una mosca dal proprio margine visivo.
Le dita invisibili non avevano fatto una piega. Si era voltato. Nella semioscurità del salone polveroso, non un singolo movimento spezzava la sua solitudine. Aveva sorriso, fra sé e sé, mentre i ricordi tornavano a torturarlo con insana compiacenza. C’era stato un tempo in cui l’eventualità di un suo ritorno non gli era poi sembrata così assurda. Invece, aveva sempre posticipato. E i giorni erano diventati mesi. I mesi, anni. Perché poi? Paura? Pigrizia. No, c’entrava ancora quella cosa: il perdono.
Inspirando a fondo, era tornato a guardare di fronte a sé. Infine, era tornato. Ma lei non c’era più. La febbre se l’è portata via! – gli aveva detto il vecchio custode – Se n’è presi tanti, la Vecchia, quell’anno lì. – e gli aveva porto una sigaretta accartocciata, come accartocciata si era sentita la sua anima, da qualche parte fra le costole e lo sterno.
«Dovevo restare. E non so chiedertene scusa…» aveva mormorato. Lieve. Sacrilego quasi, nel pronunciare quelle poche parole. Là fuori, la luce si era spenta. Il suo capo si era appoggiato sui tasti amati. Vecchio. Solo. Si era spento anche lui.