Meglio il mare
Avrei voglia di quella terrazza sul mare, adesso. Di quell’isola vicino Porto Santo Stefano che ci arrivi con un piccolo traghetto, navigando a vista tra onde morbide e una distesa che si punteggia di smeraldo, di cobalto, con dei tocchi di violetto, dove l’acqua è più profonda. Poi ti perdi nei riflessi di giada, fino ad arrivare alla trasparenza inaudita e inattesa, che ti consente di vedere la sabbia anche quando sotto la barca ci sono tanti metri di mare .
Avrei voglia di quell’isola per ritrovare serenità. Perché siano i rumori della natura a svegliarmi al mattino, un gabbiano mentre apre le sue ali ad un volo nuovo. Respirare l’aria a pieni polmoni, lasciando le polveri marcire nello smog delle città insieme alle agende fitte di impegni, al correre dietro al tram, ad una vita che non mi piace più.
La baia abbraccia l’infinito mentre le barche nere, in controluce, lo punteggiano e si fanno cullare lente dal dondolare buono del vento
Vorrei andarci oggi, che non c’è nessuno. Nemmeno un ombrellone a rendere colorata la spiaggia. Nessun chiosco dove rinfrescarsi dalla calura con bevande ghiacciate. Ci sono i gabbiani, però. Vicino a loro sto bene. Mi piace osservarli, avvicinarmi, vederli volare planando decisi sull’acqua per poi riprendere quota, guardarli fermarsi sul mio balcone mentre il sole cala all’orizzonte. Non chiedo molto, mi dico. Due stanze sul mare, un buon libro da leggere quando arriva la sera, un motorino per sentire le curve leggere mentre si sale verso il Castello. Da lì, si domina il mondo. Gli occhi non bastano tutti per guardare cielo e mare. E nient’altro. Perché nient’altro c’è, qua al Giglio. Al massimo qualche filare di vite, uve bianche dal sapore intenso che stasera porterei sulla mia tavola gustando un bicchiere di Ansonica ghiacciato. Mi bagnerei le labbra, lascerei il suo sapore fruttato scaldarsi piano, nella bocca, prima di deglutire, di lasciarlo andare. Scalza, così da poter avvertire il mondo sotto ai miei piedi, scenderei velocemente i cento scalini che portano alla spiaggia. Sentirei il freddo della sera sulla pelle, la carezza della sabbia e poi i brividi, quando l’acqua mi prenderà d’improvviso, sulla battigia.
Che sia questa la felicità? Me lo chiedo mentre mi trucco davanti allo specchio, alle sette del mattino, prima di prendere il solito tram, tagliare velocemente la stazione e in dieci minuti arrivare nel centro di Firenze. Passare da San Lorenzo, con i banchi zeppi di cineseria e infilarsi nella solita cioccolateria dove bere un buon caffè e non voler più uscire da lì. Sognare qualcosa di buono, prima di entrare al lavoro. Incazzarsi, ancora prima di iniziare, perché sai già che sarà una giornata come tutte le altre. Insignificante. Mi resta il sapore di un buon caffè di qualità, il sorriso del barista prima di imboccare Via de’ Ginori e buttarmi alle spalle i buoni propositi.
Un piccione annaspa come una gallina nell’aia. E’ grigio come la città d’inverno.
Desidero nuovi rumori. Non quelli sgraziati delle auto, della ferraglia delle rotaie, della tastiera del portatile. No, no. Ho voglia di vecchi suoni. Di profumi intensi. Dello sciaguattare dell’acqua che non si ferma neppure di notte. Di un pesce che guizza sotto riflessi argentei. Ho voglia di me, della parte più vera. L’ho rinchiusa in quattro mura. Stretta e reclusa. Soffocata dal niente. Perché di questo si tratta, del niente. Meglio il mare, come diceva mia nonna. Meglio lasciarsi avvizzire la pelle dal sole, purificarsi l’anima con il salmastro. Nutrirsi di frutta succosa e spaghetti con le telline. Al diavolo il resto. Se un resto esiste. Mi tufferei di schiena, allargherei le braccia e farei il morto a galla. L’acqua mi terrebbe su, davanti avrei solo il cielo. Mi basterebbe. Lo giuro.