La donna di Kaliningrad
Kaliningrad è uno di quei luoghi pieni di storia che la storia stessa ha dimenticato: sotterrato da chilometri di tempo e decenni di distanza. Fino ad Aprile 1945, l’odierna ex clave russa di Kaliningrad si chiamava Königsberg, era parte del territorio prussiano del Terzo Reich ed era conosciuta in tutto il mondo sia come località balneare frequentata dalla nobiltà europea sia per avere ospitato il grande filosofo tedesco Immanuel Kant. Nel corso della sua vita, narrano le cronache illuministe, nemmeno per un giorno Kant abbandonò quella città affacciata sul Mar Baltico. La ricchezza di Königsberg al tempo di Kant era nei suoi palazzi tardo gotici, nel maestoso Castello del quale si narravano leggende surreali, nelle numerose botteghe che producevano ed esportavano in tutta l’area germanofona richiestissimi manufatti pregiati e nelle spiagge ampie e riscaldate dall’unico sole che il freddo Mar Baltico lasciava filtrare.
Poi, è arrivato il lento declino, coincidente con quello spazio di follia generale che si è insinuato tra le due grandi guerre. Nonostante questo, al tempo del Terzo Reich, Königsberg era ancora quella ricca città fiorente dalla quale veniva estratta l’ambra con la quale si adornavano i più importanti palazzi del mondo occidentale. Misteriosamente, i bombardamenti alleati lambirono soltanto i prestigiosi palazzi baltici di Königsberg, che si dovette presentare in tutta la sua bellezza, quei giorni di Aprile del 1945, quando l’esercito russo irruppe in città, dopo giorni di attacchi contro la linea germanica.
Questo era tutto quello che sapevo di Kaliningrad, prima di metterci piede, nell’estate del 2003.
Ero partito una settimana prima da Sarajevo in autobus, passando per Novi Sad e arrivando a Budapest. Dalla capitale ungherese un treno mi aveva portato a Varsavia, dove mi aspettava Julia; russa di origini siberiane, che a Kaliningrad lavorava alla Facoltà di Economia dell’Università. Entrammo nella regione di Kaliningrad quando il sole era ormai sceso, ma l’ombra che incombeva non m’impedì di capire che Königsberg non c’era più. Nessuno di quegli edifici che avevano ospitato la nobiltà europea, che avevano assistito a dispute tra filosofi in pellegrinaggio per confrontarsi con Kant o che avevano visto il passaggio di lastre d’ambra grezza, era ancora visibile a Kaliningrad.
mi aspettava Julia; russa di origini siberiane, che a Kaliningrad lavorava alla Facoltà di Economia dell’Università
La nostra macchina procedeva lentamente, schivando quante più buche possibili, profonde quanto un fosso, nel pieno centro della città. Alla nostra destra e alla nostra sinistra c’erano palazzi in perfetto stile sovietico: lastroni di cemento ammassati uno sull’altro. «Ogni tanto qualche edificio crolla» mi spiegò Julia, aggiungendo che quei casermoni erano stati costruiti in fretta e furia tra gli anni cinquanta e sessanta con una «garanzia» di massimo 30 anni; e noi eravamo nell’anno 2003! Passai la prima notte in uno di quegli edifici, tra gli scricchiolii del marmo rosicchiato dalla miriade di topi che apparivano all’imbrunire. «Domani ti porto in un posto che non potrai mai più dimenticare», disse Julia, prima di spegnere la luce e salutarmi. Così sarebbe stato.
La sveglia all’alba non mi ha mai spaventato, ma quella mattina sentivo che sarebbe stata una giornata anomala, del tutto priva di normalità. Partimmo verso le sette di mattina, percorrendo strade di campagna deserte, raccogliendo di volta in volta vecchietti che chiedevano passaggi. Ho capito dai volti di quelle persone quanto l’uomo sia dipendente dai suoi simili. Ogni volta che la nostra auto si fermava per lasciare l’ennesimo ospite inaspettato al villaggio in cui era atteso, lo sguardo di quella persona, conscia di quella che sarebbe stata la nostra destinazione, ci salutava con uno strano senso di colpa. Ma colpa di cosa, mi chiedevo.
Arrivammo su un terrapieno che dava su uno strapiombo di alcune decine di metri e sotto i nostri piedi, una spiaggia deserta, direttamente sul Mar Baltico, ancora freddo e maestoso. Scendemmo con fatica lungo un sentiero poco battuto. Rallentati dal vento andammo fino al punto in cui la spiaggia si confondeva col mare.
In quel luogo di mezzo, Julia invitò a girarmi e notare in lontananza, sul costone che avevamo appena disceso, una serie di fori insolitamente regolari. «Questa è la spiaggia del massacro», ripeté alcune volte, «dove tra qualche ora i ragazzi verranno per farsi il bagno», disse con l’amaro in bocca di chi sta raccontando la perdita della coscienza storica. «Il 21 gennaio 1945, con l’armata russa alle porte, circa 10.000 ebrei provenienti dai campi di concentramento dell’est vennero ammassati dai militari tedeschi su questo terreno, le spiagge di Sambia, con la promessa che alcune navi sarebbero passate a prenderli. All’improvviso, da quei fori che ti ho appena mostrato, alcune mitragliatrici iniziarono a sparare, sterminando in pochi minuti circa 7.000 persone, alcune delle quali per la disperazione cercarono di fuggire in mare, trovando altro tipo di morte, viste le temperature rigide di quel periodo».
avrei potuto abbracciare la donna, ma non la storia che ero andato cercando, perché quella avrei dovuto raccontarla
Dagli anni cinquanta fino al 2001, la regione di Kaliningrad ospitò batterie di missili intercontinentali puntati sull’Europa e parte della flotta militare russa nel Baltico. Per questo motivo, nessuno straniero era ammesso nell’area, interdetta persino alla popolazione russa importata dalla Siberia.
Rimasi per tutta l’estate a Kaliningrad, cercando invano quella bambina che al tempo avrebbe dovuto ormai essere una donna. Un giorno venni perfino fermato dalla polizia russa, indispettita per via del fatto che stavo cercando di fotografare quella che sarebbe dovuta diventare la sede del Parlamento regionale. Fu Julia a togliermi dai guai e, forse, io a mettere lei nelle peste.
La mattina della partenza, quando il freddo già iniziava ad incombere sulle giornate, alla stazione degli autobus, sotto un diluvio che non avevo mai visto, in attesa che mi venisse riconsegnato il passaporto, Julia mi fermò e chiese di uscire dal gabbiotto nel quale mi trovavo. Seduta su una vecchia seggiola sotto un piccolo porticciolo con il volto perso nella nebbia c’era lei, quella bambina ebrea scampata dall’eccidio di Sambia, ormai donna anziana. «Tu sei l’italiano che vuole vedere l’ebrea tedesca che vive con i russi», mi disse in un tedesco ancora perfetto, guardandomi fisso negli occhi. Non trovai alcuna parola sensata per quell’occasione, e le chiesi solo se avessi potuto abbracciarla. Lei mi disse che avrei potuto abbracciare la donna, ma non la storia che ero andato cercando, perché quella avrei dovuto raccontarla.
Qui la prima parte.