Anche se da lontano
C’è una strada, di quelle che dall’autostrada portano al mio paese, completamente avvolta nel più serrato verde. Sia a destra che a sinistra della carreggiata gli alberi hanno una naturale pendenza verso il centro della via, tanto che, anche se non particolarmente alte, le opposte cime spesso si toccano, e neanche il cielo riesce a penetrarle. Nella calura estiva della mia terra passare attraverso questa verde grotta dà un senso di ristoro, di riparo dall’insopportabile caldo. E’ sempre questa la sensazione che provo ogni volta che l’attraverso. È questa la splendida fotografia naturale che sa mettermi di buon umore.
Ieri al ritorno dall’ospedale, nell’imboccare quella strada, la prima immagine che mi è saltata agli occhi sei stata tu. Un pensiero nato inconscio ma divenuto determinato che mi ha indotto all’elaborazione del significato del mio incontro con te. Non è ancora conclusa l’elaborazione, ma forse oggi ho la possibilità quanto meno di accennare al senso che m’hai lasciato dentro. Accade, per la mia incessante voglia di crescere, ch’io non riesca a godere appieno delle cose che faccio, e la speranza è sempre che il tempo passi in fretta e che quella certa esperienza possa mandarla presto a bagaglio, a fortificare le mie ossa, a costituire un ulteriore gradino che mi elevi verso le mie mete. Ma stavolta è andata diversamente. Sapevo che in qualche modo il tutto ti coinvolgeva, ma non capivo in che misura. Quell’immagine m’ha svelato tutto, o meglio: mi ha indicato la strada da seguire per una completa comprensione. Quell’infinito, dannato, attimo che separa i saluti dal vuoto… Gli occhi accesi… l’unico filo di voce che la commozione ti aveva lasciato: “è stato bello, bello davvero“.
…e il mio mondo in caduta libera! E l’emozione a far di quella caduta un passo di danza!
Ricordo tutto: il tuo ascendente su me, il desiderio e la curiosità che mi suscitavi, la voglia di stare dove stavi, la voglia di condividere… sì, ecco: la voglia di condividere: “dividere con“…
Senza saperlo hai evitato di farmi precipitare nell’apatia dell’abitudine. Hai fatto in modo che la mia storia diventasse storia senza rubare nulla al presente, m’hai fatto mettere il piede su quel gradino solo quando il cemento s’era ben solidificato. E tutto questo io non lo sapevo, e tu non lo sai ma forse puoi capirlo. Ed io ero quella macchina che attraversava la verde e fitta flora di paese, e tu eri la natura che mi avvolgeva, che mi proteggeva, che scambiava con me l’ossigeno. Non m’hai fatto desiderare la fine. Hai protetto la mia sensibilità dall’inaridimento. Aver avuto una crisi d’astinenza da palcoscenico è il più lampante segno di quanto tu mi tenevi là, in quella dimensione, ed io di tutto ciò ho temuto di non poterne più fare a meno. Comprendi il mio pianto? È per il mondo che m’hai fatto conoscere nell’arte e nella vita, in scena e dietro le quinte.
E per ogni volta che t’ho dato dell’immatura, quante volte tu m’hai trasmesso il giusto entusiasmo per riuscire ancora a meravigliarmi come un bambino!? L’affare straordinario in tutto questo è che tu non hai fatto niente con consapevolezza, tu semplicemente ti sei messa sul mio cammino, il resto l’ha fatto il fato. Perché io sono così e tu sei così, e ci siamo incontrate. Ed è una fortuna rara. O forse non è fortuna, ma la necessità che ha il mondo di ricercare tesori. Ecco: lì siamo noi! Con una reazione a metà tra l’ovvio e l’incomprensibile abbiamo ricevuto e modificato l’energia donataci. E ora il mondo ha quello che cercava. Se provi ad ascoltarmi di pancia non potrai non capire.
Sai toccarmi l’anima. La tua poesia lo fa. E mi manchi. Ma soprattutto mi manca ciò che di te oramai mi appartiene e che fa di me la donna che sono.