Televisore e televisione (parte prima)
Ho visto alla RAI che parlavano della RAI. Il che non sarebbe strano di per sé, chi è che non tira acqua al suo mulino? Ma è l’argomento trattato che mi ha incuriosito. Si parlava di un compleanno importante: i sessant’anni di questa strana entità. Un’età da nonni, oggi perfino da neo genitori. La ricorrenza che una volta mandava in pensione e che oggi ti vede ancora a sudare più o meno stancamente sul posto di lavoro.
Per la RAI certo non valgono le regole umane, ma è emozionante ugualmente considerare quanto tempo sia passato, quanto le cose siano cambiate. E quanto la nostra esistenza sia stata accompagnata da questa mamma catodica, ora digitale.
Al Vittoriano, a Roma, per festeggiare l’evento è stata inaugurata una mostra che durerà fino a maggio. I casi della vita mi impediscono di recarmi di persona, ma appunto mamma RAI, parlando di se stessa, ha mostrato alcuni servizi nei tiggì che hanno suscitato in me un’ondata di ricordi.
Prima ancora di ricordare ciò che guardava alla TV la bambina timida che ero, la prima cosa che mi viene in mente è l’apparecchio stesso.
Oggi che in ogni casa, nonostante la crisi, i televisori sono pezzi di arredamento ultrapiatti, megagalattici, connessi a internet, a mille canali, con visione tridimensionale e che tra poco potranno diffondere anche gli odori, il ricordo che ho io del primo televisore arrivato in casa mia è di uno strumento grigio, ingombrante, dal posteriore profondo che richiedeva un angolo importante altrimenti sporgeva troppo. Infatti il nostro era posizionato su un carrellino, al cui piano inferiore c’era il condensatore. Un interruttore su quest’altro aggeggio accendeva lo schermo, il quale richiedeva un certo tempo perché “si scaldasse” e mostrasse immagini. Immagini, come tutti sanno anche se sembra assurdo, in bianco e nero. Eppure magiche. Non ci si chiese mai perché si dovesse avere una visione peggio che daltonica, così monocromatica, fino all’avvento del colore; non appena questo fu accessibile a tutti fu chiaro che fino a quel momento avevamo vissuto in una preistoria visiva del tutto anomala.
Non importa, perché la giovane RAI di quei tempi in bianco e nero aveva il potere di incantare tutti.
Cosa guardavo io, che ero piccola e amavo più leggere che giocare?
Consideriamo intanto che il televisore era unico e di dominio familiare, nel senso che era posizionato in salotto e doveva accontentare tutti; di sicuro non c’era la possibilità di zapping. Anzi, quando finalmente apparve il secondo canale, oltre che al primo, detto Nazionale, cominciarono le discussioni: “Guardiamo il primo, no, il secondo”; lessico che ancora rimane nelle famiglie, altro che dire Raiuno, Raidue o Qualsivoglia RAI! Altra discussione era su chi doveva alzarsi a cambiare manualmente il canale, perché il telecomando non esisteva manco nella fantasia di Asimov, era solo un bottoncino da premere sul televisore stesso.
Detto ciò, una bambina che avesse finito di fare i suoi compiti e volesse sognare in modo diverso che leggendo, alle 17 poteva accendere la TV: le trasmissioni cominciavano giusto allora con la TV dei ragazzi.
Sì, oggi ci sono una miriade di interi canali dedicati ai bambini… qui si parlava di un paio d’ore, forse, tutte per noi. Ricordo i cartoni animati di Braccobaldo, orso Yoghi e simili, i telefilm di Zorro e Rintintin, un fenomenale programma di quiz intitolato “Chissà chi lo sa?”, guidato da un certo Febo Conti che nessuno ricorda più, e le comiche di Stanlio e Ollio. Io mettevo una sedia al contrario, la inforcavo come se fosse un cavallo e fingendo di cavalcare guardavo affascinata.
Anni dopo, allo stesso modo, inforcherò la cyclette cercando di coniugare la riabilitazione a un ginocchio, alla perdita di qualche etto, alla visione di demenziali programmi a cui toglierò per certo l’audio per concentrarmi invece sulle notizie di televideo.
Alla sera, dopo Carosello, c’erano i film. Il lunedì il primo canale dedicava un ciclo a un attore e metteva in onda settimanalmente una sua pellicola. A 11 anni, quando Brad Pitt era un anonimo pischello della mia stessa età, mi sono innamorata perdutamente per la prima volta di Humprey Bogart vedendolo baciare le sue partner. Finzione o no, io sognavo baci come quelli, se dati da lui in persona meglio ancora. Poi venne l’era di Paul Newman e diciamo che almeno in fatto di estetica nel tempo ho migliorato il gusto dei sogni.
Ma anche John Wayne è stato uno dei miei impossibili amori. La sua figura imponente e autoritaria era rassicurante, poi vinceva sempre, e anche se io amavo il popolo dei pellerossa non potevo non seguire con trepidazione tutti i film western e non con il mio cowboy preferito.
Ma chissà perché quando lo rivedo oggi nelle innumerevoli repliche non mi fa più lo stesso effetto.
Invece Kabir Bedi nei panni di Sandokan il fascino della tigre non lo ha perso mai.
Il giovedì era dedicato ai quiz di Mike Bongiorno: per partecipare ci voleva una preparazione più accurata che per dare una tesi di laurea. (continua)