Perchè restare?
Il mio Paese. Potrei perderci le ore a parlarne, le giornate, le notti. Ed è più o meno quello che faccio, ogni volta che mi si presenta l’occasione. Anche con quelle persone che sono solite trattare l’argomento in stile “chiacchiere da bar”, quelle che pensano che dire “questo fa schifo” li renda automaticamente migliori di quelli che dirigono la baracca e poco importa se, interrogati sulle soluzioni, rispondano senza cognizione di causa. Del resto sono in molti a sostenere che il problema dell’Italia siano gli italiani, popolo che sembra avere una naturale predisposizione alla delega, se non alla sottomissione. C’è poi chi sostiene che sia il sistema ad essere talmente corrotto da trascinare in modo naturale, in alcuni casi, o a costringere, in altri, le persone ad aderire ad un certo modo di fare, come fiumi che non possono che sfociare nel mare. Comunque la si pensi, quello che rimane è una realtà che conosciamo tutti, ed è una realtà desolante, soprattutto se si pensa che basta fare un passo fuori da questo Paese per trovare modelli di vita umani. Comunque non voglio gettare parole nel pozzo dei discorsi già fatti, né tanto meno lanciare la mia “ricetta per il Paese” con tanto di candidatura a Premier. I significati sono una cosa complessa, e il più delle volte ci passano a fianco senza toccarci.
Quello che ho in testa è una domanda che mi assilla ormai da anni, e più passa il tempo e più la sua voce diventa insistente: Perché non me ne vado? Perché rimango qui a farmi fottere il presente ma soprattutto il futuro? Sento di essere circondato da pareti invisibili che si stringono ogni giorno di più, e ogni giorno una piccola parte di me si sente soffocare. Tra due mesi compirò venticinque anni, e gli ultimi dieci li ho passati a fantasticare su una vita lontano da qui, come probabilmente molti dei miei coetanei; prima di oltrepassare la sottile linea che separa il “mi piacerebbe” dal “mi sarebbe piaciuto” mi chiedo cosa mi abbia trattenuto fin oggi. Cosa interveniva sulle mie sinapsi mentre mi dicevo che era il caso di farlo?
Probabilmente però, più di tutto, mi ha frenato la paura
Probabilmente però, più di tutto, mi ha frenato la paura. La paura di affrontare la vita di tutti i giorni, lavarmi i vestiti da solo, fare la spesa e cucinare ogni giorno, dovendo anche studiare e lavorare. La paura di svegliarmi in un letto e non sentirmi a casa, di non trovare il corridoio che dalla mia stanza porta in cucina. Di non passare, rientrando, nel giardino in cui il mio cane correva come una trottola e che da piccolo mi sembrava una foresta. Paura di non potermi più fingere infastidito quando mia madre mi abbraccia. Paura di non farcela a reggere tutte queste cose.
Certo, la paura, ma negli ultimi tempi mi sono reso conto che quella paura non sarebbe bastata a sovrastare la voglia di vita che sentivo, se sull’altro piatto della bilancia non ci fosse stato qualcosa di concreto, e forse quel qualcosa l’ho trovato:
Forse è che non riesco ad arrendermi al caso, il che mi fa venire in mente una scena di Vincenzo Salemme nel film “Cose da pazzi”
Se ci pensate Garibaldi poteva cadere da cavallo, Hitler poteva continuare a fare l’imbianchino, l’America poteva essere “scoperta” cent’anni dopo. In tutti questi casi e in chissà quanti altri staremmo parlando di una storia diversa; migliore, peggiore, ma di fatto diversa. Sarà che ho imparato a comprendere la mia gente, ad ammirarne quasi la capacità di scivolare in modo così leggero nelle contraddizioni, convivendoci beatamente. Il mio popolo creativo e artigiano, che rende qualitativamente migliore tutto ciò su cui mette le mani e la firma. Sarà che quando è così difficile seminare, perché la terra è arida e infertile, quei fiori che nascono hanno dei colori bellissimi. Sarà che qui anche nelle cose più tristi si può trovare la bellezza, e si comprende cosa vuol dire non dare nulla per scontato, ché quando raggiungi un traguardo è come se valesse doppio.
Sarà che Napoli rimane sempre bellissima, e il 16 novembre l’abbiamo invasa in duecentomila, sotto la pioggia, per difenderla, senza sentire l’acqua. Sarà che quel giorno ho visto la rivoluzione in due occhi azzurri del colore del cielo, il cielo della mia città, e ho capito che forse non sono fatto per una vita felice, ché la mia vita, lontano da qui, non avrebbe lo stesso senso.
Con i più sinceri auguri di ogni felicità a chi va via – ve la meritate – e un abbraccio fraterno a chi resta.