Cosa vuoi fare da grande? L’astronauta?
Odiavo questa domanda. A qualsiasi età me lo chiedessero, per i primi secondi sentivo le palle…degli occhi, roteare e poi a seconda dello stato d’animo del momento, rispondevo. A volte dicevo “la dottoressa dei bambini”, la pediatra perdincibacco, ma tutt’ora preferisco chiamarla così; in altre occasioni era il turno di “la cantante”, cosa che è rimasta fino ai giorni nostri ma ormai resta un hobby sporadico se non addirittura esclusivamente sotto la doccia; altre ancora era “la ginnasta” ma è durato solo per pochi anni. Credo, all’epoca, di non aver mai risposto “la scrittrice”, o almeno fino a quando non si è sviluppata la capacità di intendere e di volere, perché allora, come oggi, sapevo che è una cosa talmente naturale e spontanea che sarebbe stato come rispondere “voglio essere un essere umano“! Avrei forse aggiunto, sei già un essere umano, quindi allo stesso modo, sei già scrittore, che razza di domande fai? Mi accorgo solo con il passare del tempo che non è così: non tutti sono “nati con la penna in mano”, non tutti hanno imparato a leggere e a scrivere prima dei coetanei e non tutti hanno giocato a fare “lo studente e la maestra” (che fosse il primo sintomo di schizofrenia?), – scrivendo temi sugli argomenti più disparati e poi correggendoli con severità e pignoleria – ma in quegli anni, non lo sapevo; pensavo fossimo tutti così.
Una scrittrice. Non ho mai dato voce a questa risposta, eppure è sempre stata lì, in un angolo della mia testa, la voce della mia coscienza; quella che nei momenti tristi e bui dell’infanzia e dell’adolescenza, portavano una ragazzina ad isolarsi in camera , con la musica accesa a livelli non accettabili, seduta sul letto con diario e penna in mano, a scrivere, a volte piangere, ma il più delle volte con tante pagine riempite di parole. O disegnini. Dove sei finita ragazzina?
Passeggiando per Oxford Street, da Surry Hills a Paddington, Sydney, Australia, qualche giorno fa, io e il mio team, notiamo come in questo quartiere ci siano veramente tanti bookshop. Non sono semplicemente negozi di libri, come la Feltrinelli o la Giunti, che vendono opere letterarie per incassare introiti, questi appaiono più come luoghi da esplorare. Molti hanno un angolo bar all’interno, come il mio preferito Berkelouw con il cafè 1812 , fatto ad angolo, su tre piani, con una vasta scelta di libri usati, divisi per settore, prime stampe antiche o nuovi arrivi, settore cartoleria con oggettini e libricini di ogni genere come quelli assurdi che vanno di moda oggi, dove ogni pagina ha un suggerimento per tenerti occupata la mente, per esempio, alla pagina ics la scritta: strappa questa pagina, segui le linee tratteggiate, piega il foglio, crea una barca e gioca come un bambino su corsi d’acqua e pozzanghere. Per esempio, ma si trovano mille altri suggerimenti.
Proseguendo c’è l’Ampersand Bookstore, anche questo sulla stessa linea, con il punto ristoro annesso. Poi ancora l’Ariel, che però non ha un punto in cui sedersi a sorseggiare qualcosa con un cumulo di fogli rilegati in mano. Anche il Bookshop Darlinghurst è sulla strada, ma il tema di tutta la libreria qui è specifico, ossia l’omosessualità, perché ricordiamo che siamo nel quartiere alternativo di Sydney; ci si fa un giro, ma non c’è la caffetteria. Altri sono nascosti in ogni dove, come il Beautiful Pages che è specializzato in letteratura di design e relativa oggettistica. Sono sicura che alla prossima passeggiata ristoratrice ci saranno altre sorprese e le scoveremo.
Tutto questo per ricondurmi al pensiero iniziale, perché l’odore di libri vecchi e il profumo di caffè appena macinato hanno creato la miscela esplosiva che ha fatto da miccia per il mio cervello iperstimolato, teletrasportandomi con la memoria a quel giorno in cui, forse mio padre, o qualche zio, ha portato “da giù” una macchina da scrivere: l’Olivetti 82. “Da giù” ossia dal paese dei nonni paterni, così caratteristico, così “io-speriamo-che-me-la-cavo”, così… Cancello.Giungeva sempre qualcosa, soprattutto dai viaggi del padre, autotrasportatore. La nonna riempiva il camion con borse di cibo, il tipico pane a pagnotta con lievito madre di secoli addietro, i Trancini, le olive, i mustaccioli, i rococò, le sfogliatelle, la pastiera, la “torta della nonna”, le onnipresenti mozzarelle, e le mitiche Madeleine che la nonna trovava al supermercato “giù alla strada” e che da noi ancora non erano vendute (Strano, ma vero!). Quel giorno c’era, in mezzo alla spesa, anche una macchina da scrivere un po’ “antica”. Come quella della foto.
Come ogni novità, dovevo provarla, usarla, incastrare le astine delle lettere più e più volte, schiacciare quei tasti così invitanti all’infinito, e credo sia stato quello il momento in cui mi avete persa. Scherzi a parte, non so che fine abbia fatto quel trabiccolo ferroso, presumo di averlo rotto, dato che come Re Mida, però al contrario, tutto quello che toccavo finiva nella spazzatura, ma non ne sono sicura. Forse è solo andato al ferro vecchio. Ahimè! In compenso, ricordo quando, in sostituzione, mi fu regalata la macchina da scrivere di Barbie, più adatta di un pesante cubotto di metallo e plastica per una bambina delle elementari. Mmm, solo qualche mese deve essere durata anche quella, poi le introvabili cartucce con il nastro inchiostrato hanno fatto sì che il mio interesse scemasse. Addio cianfrusaglie da scrittore, mi butto su carta e penna.
Oggigiorno, continuo a preferire quest’ultima, sopracitata, pratica; il computer – e lo scrivere al computer soprattutto, mi stanno un po’ antipatici, ma sacrifico la mia avversione per una giusta causa. Cosa che mi allieta alquanto è la scoperta di una penna con cui poter scrivere e registrare poi i tuoi appunti da scaricare, eventualmente sul computer, così da creare il file informatico di quello che tu hai, deo gratia, appena terminato di scrivere A MANO. Ecco, cara tecnologia in questo caso ti stimo. Alla prossima, see ya mates, cheers!