Alla faccia di Piazza Italia
Sono andata in Francia a tastare il terreno per vedere un po’ di specialistiche, farmi un’idea su cosa fare del mio futuro. Tanto ormai ce lo spiattellano in faccia ovunque, che noi giovani dobbiamo andarcene. Non è più una scelta, qualcosa di rivoluzionario, quasi non ci piangono nemmeno più le nostre mamme, dopo aver visto in tivù che i giovani se ne vanno, dopo aver preso atto della campagna Bella Ciao di Piazza Italia, dopo aver visto che dire che studi a Londra è già passato di moda perché adesso si va per forza in Australia. E poi noi giovani abbiamo visto che in Australia non ci va solo il figlio di papà per fare gli studi di business ma anche chi vuole testare il suo spirito di indipendenza e la sua autonomia, misurare la resistenza al freddo, al caldo, al cibo diverso, al cibo pronto, al cibo da cucinare, a lavarsi le camicie da solo, a ricucire i bottoni dove saltano.
Sono tornata in Francia una settimana pensando di andare sul sicuro, che tanto io business non lo voglio studiare e Parigi è stata casa mia già l’anno scorso. Stavolta però è stato diverso. Dovevo aspettarmelo, perché più d’una persona me l’aveva detto, ma fino a che certe cose non le provi sulla tua pelle si sa che è dura immaginarsele. Allora eccomi in quell’aereo, poi in quelle strade, a ripercorrere le traiettorie esatte che i miei sogni realizzati avevano percorso l’anno scorso, in cui la città era la mappa di un gigantesco gioco da tavola e in cui nulla andava preso sul serio e tutto era a tempo determinato e nessun incubo faceva davvero paura e nessun sogno era tangibile tranne quelli che ho portato a casa, conservati con cura estrema accanto al cuore, fino a Roma. Sì: alla faccia di Piazza Italia, casa mia è a Roma. Poi mi dico che a ben pensarci quando ero appena tornata a Roma fu un po’ come stare in una città da conoscere di nuovo da capo, come se non avessi mai percorso i vicoli di Trastevere e camminato in centro, odiato via del Corso ed amato l’universitaria San Lorenzo. E allora mi dico: questione di abitudine? Okay: mettiamola così, ammettiamo che sia abitudine.
Io però ho visto quelle università e quegli insegnanti e quei corsi che da lontano sembravano tutti interessanti, ho parlato con persone che hanno studiato per lavorare in ambasciate, ong, istituzioni comunali e invece lavorano alla Nespresso, allora mi dico che dipende dalla fortuna esattamente come qui. E penso alla cultura, la famosa cultura intellettuale parigina: vero, c’è da mangiarsi le mani di fronte all’enorme offerta culturale che dà la Francia, al rinnovamento continuo delle proposte cinematografiche, letterarie, teatrali, ma è vero anche che una volta che ci si fa il callo poi andare al cinema, a teatro, leggere il libro che tutti leggono diventa routine un po’ come potrebbe essere per uno straniero che voglia calarsi nella realtà italiana andare allo stadio ogni domenica, saper in che pizzeria andare a Trastevere, comprare il giornale al mattino, vedere la tv. E sono cose diverse, è chiaro, ma a me non piace la routine, e quello che mi ha dato fastidio questa volta è che quest’aria intello francese sia tutta un po’ routine, sia tutta una maschera adorabilissima in cui non saprei forse calarmi davvero per due anni consecutivi. A me piace rimanere qui dove si legge meno ma chi legge ci si giocherebbe la vita, dove il cinema offre pellicole perlopiù peggiori ma dove so che quella buona la andrò a vedere alla prima sera libera, mi piace star qui e parlare di che brutto è che manchino i fondi e sperare che le cose cambino qui e far di modo che cambino davvero invece di andarmene via io. Allora sai cosa? A Parigi ho deciso che c’è sempre tempo per andarci poi, che adesso non sarà Roma, ma comunque l’Italia sì. Salirò forse un po’ su per il Nord, finirò dove i corsi e i miei percorsi finiranno, ma dicendo a testa alta che non sono di quei giovani cosmopoliti e sradicati da tutto, che girandomene qua e là mi son fatta un’idea tutta mia di quelle che voglio far essere le mie radici – che parola antica, moraleggiante, adulta. Che vorrei essere una chioccia e portarle con me, certe cose che il computer portatile non può trattenere, certi affetti e certa spontaneità che fuori non c’è e certe maniere di fare che non ritroverei e certa ignoranza “de core”, come si dice a Roma, che è spesso anche la più bella saggezza. Che sono mezza libanese e mezza italiana ma non per questo un’apolide, anche se tante di quelle volte nel passato l’ho sperato. Che sono così, a cavallo fra mille posti ma ancora per un po’ ancorata qui, alla faccia di Piazza Italia, e che spero che la crisi non ci porti tutti via,quando giunga il momento di cercare lavoro, e che il viaggio o la vita all’estero sia sempre scelta e mai d’obbligo.