¡Viva Santa Cruz!
Viaggiatore che giungi fin qua
fermati un attimo, non tirar dritto.
Vieni con franchezza, piacere ci dà!
E’ legge del cruceño l’ospitalità.
Santa Cruz l’abbiamo spiata dall’alto, volando tra le nuvole solitarie sparse nel cielo come batuffoli di cotone. Pare un ritaglio bianco nella foresta, tra i fiumi ocra che serpeggiano carichi d’acqua piovana.
Ci accoglie con poche semplici righe appese a una parete dell’aeroporto. E con il canto delle cocorite tra le acacie in fiore e il vento caldo che ci soffia addosso con la prepotenza del getto di un fon.
Non sono ancora le sei de mattino e la voce squillante degli speaker radiofonici da già il buongiorno alla città che si sveglia.
La colazione la si fa al mercato, seduti con le gambe penzoloni sugli sgabelli, seguendo con lo sguardo le donne che preparano le macedonie di frutta. Con i gomiti appoggiati al banco piastrellato divoro una salteña dal ripieno dolciastro mentre il proprietario mi allunga il frullato di fragole che ha preparato fresco fresco per me. L’ha versato in un sacchetto in plastica che ha legato alle estremità dopo averci infilato dentro una cannuccia gialla. “Vuoi la yapita?” – e per yapita intende quel po’ che avanzata sul fondo del frullatore. “Claro, señor”. Se non si conosce un po’ di slang ci si possono perdere davvero tante cose!
Saliamo al volo su uno dei tanti minibus che affollano le strade, e che i boliviani chiamano affettuosamente trufi. Questo qui è bianco e sui vetri ha appiccicate delle scritte in giapponese.
Santa Cruz è organizzata in anelli concentrici che le valgono il nome di “Città Rotonda”, attraversati in perpendicolare da strade che nel loro incrociarsi la fanno assomigliare a una scacchiera. Così per orientarsi basta chiedere in quale anello ci si trovi mentre per misurare le distanze si usa la cuadra, ovvero lo spazio che intercorre tra due strade parallele.
“Si fermi all’angolo, per favore” grido all’autista tra accelerate e frenate mentre con gesti goffi cerco di passargli le monete per pagare il pedaggio. L’aria che circola nell’abitacolo porta il profumo dello shampoo usato poco prima da una bambina seduta più in là. A Santa Cruz le ragazze escono con i capelli ancora bagnati, intrappolati nei fermagli per tenerli in ordine nonostante il vento che soffia con forza tra le calli. La ragazzina ha una treccia corvina che le scende sulla t-shirt azzurro cielo, in contrasto con la pelle luminosa della tinta del miele selvatico.
Ci ripariamo dal sole sotto i porticati del centro, facendo lo slalom tra i fusti esili delle colonne in legno. Il bianco degli intonaci fa rimbalzare con ancor maggiore intensità la luce già forte del mezzogiorno e a fissare i marciapiedi ci si riempiono gli occhi di lacrime.
Agli angoli degli edifici in stile coloniale stanno le donne in pettorina coi loro carretti a vendere bibite fresche ai passanti: il succo d’arancia spremuto all’istante, quello di tamarindo battuto con il ghiaccio, il dolce mocochinchi fatto con le pesche secche.
Al mercato delle 7 Calles le bancarelle occupano in larghezza quasi tutta la strada e tra i jeans appesi in alto, le magliette e i calzini si insinua l’odore del cibo che esce dai comedores, le mense pubbliche. Oscar mi chiede in tono ammiccante se voglio assaggiare la minestra di arachidi più buona di Santa Cruz. Che domande! Ci infiliamo in un corridoio dalle pareti amaranto che conduce a un cortiletto dove stanno disposti un pugno di tavoli e qualche sedia.
“Doña Purita, siamo venuti a mangiare la tua sopa de manì!”. Purita ci fa compagnia mentre tiriamo su la minestra coi cucchiai e succhiamo gli ossicini delle zampe di gallina che fino a poco prima galleggiavano beatamente in mezzo al piatto. Ha la vocina esile, una gentilezza innata e un figlio di sei mesi in braccio. Come tante boliviane è ragazza madre pure lei e per arrotondare, oltre a lavorare in una scuola secondaria, apre le porte di casa e cucina per chi vuole pranzare a poco prezzo. “Ma sono comunque fortunata -dice stampando un bacio sulla guancia del figlio- perché il mio gordito, il mio ciccio, è qui con me”.
Usciamo in strada con il gusto della yuca fritta ancora in bocca. Il vento gonfia le tende delle bancarelle, nel cielo scuro i nuvoloni bianchi corrono all’impazzata. Tento disperatamente di fermare un minibus, convinta che di lì a poco si sarebbe scatenato un uragano. E invece non cade neanche una goccia. Questo perché la natura boliviana quando si esprime lo fa sempre in gran stile e senza mezzi termini: i cieli non sono mai color pastello, l’aria che si alza non è mai una brezza leggera. E a ben pensarci la periferia è quasi già foresta.
L‘avevamo letto all’aeroporto e ora ne abbiamo conferma: l’ospitalità dei cruceñi non è una leggenda. Carmen ci fa entrare in casa e ci serve un refresco di maracuja che non è davvero niente male. Si parla del più e del meno, del fatto che è metà novembre e l’estate sta per arrivare, di quanta distanza sembra esserci tra il Sudamerica e l’Italia, delle novità che lei e suo marito Roman ci devono raccontare. La prima è la laurea in medicina che sta cercando di ottenere, la seconda è che tra qualche mese ci sarà il loro primo figlio a giocare sotto la pianta di papaya che cresce in giardino.
Di sera la piazza 24 Septiembre è affollata come non mai. La gente sta seduta sulle panchine e sorseggia il caffé al latte servito nei bicchieri di carta dai venditori ambulanti. In alto, il fruscio delle foglie di palma mosse dal vento è il sottofondo ideale per tirare il fiato dopo una lunga giornata di cammino. Chiudo gli occhi e percepisco la città viva pulsare intorno a me. Da un angolo della piazza arrivano le note di una cumbia del recuerdo: “Ay, es amoooor….”.