Deserti neri, deserti bianchi
Chi l’ha detto che i deserti sono tutti uguali. Ci sono i deserti di sabbia, quelli di roccia, quelli che a guardare bene ci trovi le conchiglie e i resti preistorici delle balene. E poi ci sono i deserti neri e quelli bianchi.
Tutti quanti hanno però una cosa in comune: sono dei grandi imbroglioni. Non siamo più ai tempi di Lawrence d’Arabia ma succede ancora di trovarsi fuori pista, senz’acqua o con la jeep in panne. Del resto in questo ambiente anche i colori cambiano in continuazione e quel che si vede all’orizzonte è comunque solo un miraggio.
La metamorfosi
Si parte sempre da qui: un’allegra compagnia, un beduino al volante, la nostra jeep che sfreccia su una strada lunga lunga dritta dritta. Tanto lunga e tanto dritta che pare voler bucare l’orizzonte. Il cielo bianco sopra, la sabbia ocra intorno. E poi le note stridule di una canzone araba che escono da un mangianastri degli anni Ottanta, i nostri zaini sulle ginocchia, una bambolina fatta a mano che saltella allegramente appesa allo specchietto retrovisore.
Fuori dall’abitacolo, nella valle che ci circonda, si compie la metamorfosi. Le pietre diventano sassi, i sassi passano dal giallo al marrone e quindi al nero. Spuntano dei rilievi che somigliano a dei vulcani e tra le rocce s’insinua il rosso della sabbia. Infine arriva il vento, che si porta via quanto può e fa emergere in superficie tracce di calcare bianco.
Said indossa gli occhiali da sole e si aggiusta la kefiya che si è arrotolato in testa a mò di turbante. “Siete pronti? Thalatha, ithnayn, wahed (ossia tre, due, uno)…” e via fuori strada, con le ruote della 4×4 che volano sulla sabbia. La polvere entra sottile come talco dai finestrini e noi con una mano ci copriamo bocca e naso e con l’altra ci teniamo saldi ai sedili. Inutilmente, perché a ogni salto è comunque una capocciata. Uno di noi sta sopra la jeep, aggrappato al portapacchi, e per l’eccitazione urla come un dannato.
La discesa si srotola davanti all’auto come un tappeto e si arresta più in giù, ai piedi di giganti formazioni calcaree erose dal vento, sparse come funghi solitari nella valle. Si scende frettolosamente dalle macchine e ci si lancia verso il basso, la velocità aumenta con la pendenza, i piedi affondano ad ogni passo nel suolo morbido. Dentro alle scarpe sentiamo insinuarsi la sabbia fresca, i capelli e le braccia si agitano al vento nella frenesia della corsa. Si arriva a valle rotolando tra le risate mentre il mondo diventa una trottola in cui cielo e terra si confondo fino a diventare una cosa sola.
La danza delle stelle
Il silenzio del deserto si impone in tutta la sua bellezza solo al calar della sera. I riflessi dell’ultimo sole incendiano di rosso il paesaggio e la temperatura che scende sembra voler sottolineare l’immobilità di ciò che ci circonda.
Said mi passa un bicchierino in cui ha versato il té alla menta che ha preparato per noi. La teiera di ceramica fuma ancora tra i tizzoni ardenti, sotto la sabbia stanno cuocendo avvolti nei fogli di alluminio i polletti che mangeremo per cena. Appoggio le labbra al vetro appiccicoso e il té scende caldo nello stomaco con la dolcezza e l’intensità di un liquore.
Le stelle iniziano a danzare nel cielo terso che ora è un ventaglio blu di ogni gradazione. Stiamo seduti a gambe incrociate sulle stuoie colorate stese intorno al focolare. Il calore delle fiamme ci brucia il viso, le mani congelate portano il riso alla bocca.
La volpe e la notte
Mi lascio alle spalle la melodia coinvolgente dei flauti e mi tuffo nella notte seguendo le ombre gettate sulle dune dal chiarore della luna. Sotto i meandri della Via Lattea, tra gli affioramenti candidi di calcare si intravvedono le tracce solitarie di sconosciuti animali.
Ed è allora che la trovo, accovacciata a distanza, gli occhi vitrei che brillano nel buio, ferma immobile a studiare i miei passi. Le orecchie appuntite si tendono in ascolto di ogni fruscio, il nasetto coglie ancora nell’aria l’odore del pollo arrostito.
Scendo sui talloni sperando che si avvicini, ma in un lampo l’ho già persa di vista. Continuo a vagare respirando la magia di quell’attimo fuggito. Se ho visto la volpe non sia mai che tra le dune si aggiri pure il Piccolo Principe?
Il sonno mi coglie alla sprovvista mentre me ne sto a pancia all’aria a contemplare la volta celeste, il corpo immerso nel calore del sacco a pelo, la fronte e le guance stuzzicate dal freddo che ormai è quasi gelo. Sopra il mio naso uno spettacolo di stelle cadenti, in lontananza la voce del deserto canta timida una ninna nanna.