Noli, uno sguardo sul sabbione
È inevitabile: quando mi trovo a parlare di mare, mi brillano gli occhi. Ho l’espressione di una ragazzina innamorata quando parla del suo lui. Mi piace raccontare per immagini quello che vedo sott’acqua, non lo nego, preferisco scrivere con la luce che digitare su una tastiera! Molto spesso si esagera con i superlativi per comunicare le emozioni e far innamorare gli altri del nostro vissuto, scrivendo con la luce questo non è necessario. È fuor di dubbio che bisogna scrivere bene: se lo fai con le parole, la lettura è scorrevole e piacevole. Se lo fai con la luce il risultato è disarmante, gli occhi leggono l’immagine, il viso si increspa in mille espressioni rapide e alla fine un’esclamazione di stupore. Una sola. Poi, la fantasia di chi guarda si scatena e da un’immagine nasce una storia, fatta da tanti capitoli diversi, che si rigenerano di volta in volta a seconda dell’umore e del carattere. Questo per me è la fotografia: vita.
Immergersi sulle barriere coralline (Il tesoro di Pescador Island) è l’epifania della bellezza, colore, vita, luce, alle volte anche troppo. La mente si distrae. Come dicevano i grandi maestri della fotografia: “il colore distrae”. Per far nascere la magia, bisogna puntare dritto al centro: soggetto chiaro, ben inquadrato e pochi, pochissimi elementi di disturbo. Il concetto è tanto chiaro quanto difficile da realizzare. Immergersi nel Mediterraneo è un’altra storia: una luce più crepuscolare lo illumina, caricandolo di mistero. “Mi piace”, pensai una mattina osservando la baia di Noli Ligure dalla spiaggia antistante al mio hotel.
Molti apneisti si stavano preparando all’immersione.
Mi avvicinai e chiesi loro: “cosa c’è sotto?” mi risposero : “quasi niente”. Non gli credetti. Scesi in acqua rapidamente, la luce del sole filtrava sino in profondità. Apparentemente, non c’era niente. Allenare la vista alla ricerca del pesce o dei tanti invertebrati che popolano il nostro Mediterraneo è come farlo per andare a cercare funghi: è un po’ faticoso, all’inizio, ma poi ci si prende delle belle soddisfazioni!
Entrare nel microcosmo, questo è il segreto. Pensare in piccolo, ecco la mia strategia. Le proporzioni cambiano, ma la vista è ancora confusa. Socchiudo appena appena gli occhi, come quando si fanno quei giochi in cui devi visualizzare una figura su di un pattern omogeneo. Ora li vedo: due, quattro, sei, otto…mille occhi che ti osservano. Ok sono dentro! Piuttosto affollato il sabbione devo dire: ogni qualvolta che appoggio una mano, qualcosa velocemente fugge via. Dovrei rivedere anche il concetto di massa in movimento: l’essere entrata nel microcosmo purtroppo non ha variato il mio ingombro.
Con la mia reflex scafandrata sono come il Capitano Kirk a comando dell’ USS Enterprise: viaggio a pel di sabbia alla scoperta di un nuovo mondo. Aggiusto l’assetto. Ora galleggio alla giusta distanza: vicina quanto basta al fondo per presentarmi in modo poco invadente agli abitanti del pianeta “sabbione” e lontana al punto giusto per gestire l’ingombro dell’attrezzatura. In avanscoperta, come uno squadrone di ricognizione, le sogliole (Solea solea) frenano la mia avanzata. Appoggiate sulla sabbia attendono guardinghe il mio avvicinamento per spostarsi velocemente poco più in là. Con una manovra evasiva a zig zag, rendono quasi impossibile la rotta in linea retta. Mi fermo. Aspetto. Tutto di nuovo è in tacito allarme. Sogno o son desta: qualcosa si avvicina. No, sono io che non avendo più regolato il mio assetto, inizio a sprofondare verso la creatura. Di nuovo appoggio la mano sul fondo. Polvere che si solleva, ciottoli che franano e conseguente panico delle piccole creature che vi abitano. Un elefante in una cristalleria, ecco ciò che sono! Ma in natura ogni cosa ha il suo posto, e forse anch’io. Ho sollevato un gran polverone e un gruppo di triglie dai lunghi baffi (Mulloidichthys martinicus) è arrivato di gran fretta ad aumentare lo scompiglio. Con i loro barbigli setacciano il fondo a caccia degli invertebrati di cui si nutrono. Supero la nebulosa che ho alimentato e sorvolo un campo di occhi e bocche disegnate sulla subbia. Decine di faccette dagli occhi verdi bordati di giallo. So di cosa si tratta: tracine (Tracina draco). Le signorine hanno un carattere tutto pepe. Dotate di più spine velenifere non esitano a far valere il loro diritto alla privacy! Da buon paparazzo subacqueo che si rispetti, devo fotografarle. Sono fortunata, mi lasciano avvicinare per dei primi piani esasperati.
Il fondale granuloso, da omogeneo che era, inizia ad essere più vario. Piccoli massi qua è là spezzano la monotonia. Aguzzo la vista. L’esperienza gioca a mio favore. In un contesto così uniforme, una roccia in mezzo al mare è di sicuro casa per qualcuno. Una sorta di condominio alle volte. Il mio respiro è rumoroso, quindi devo prestare attenzione, o “loro” mi sentiranno! Mi avvicino, e li vedo: solo donne e bambini in casa! Un piccolo ghiozzo della sabbia (Gobius geniporus), sembra implorare di non far del male ai suoi piccoli. Tante piccole uova appese al soffitto, sono in attesa di sviluppo. Quale tenerezza ritrovare anche in un pesce lo sguardo di una madre che teme per la prole. Con rispetto documento l’evento e me ne vado.
Ho una strana sensazione: è come se qualcosa mi seguisse. Non è timore, in acqua niente può nuocermi alla salute. Ogni tanto con la coda dell’occhio vedo zampette, come di ragno che veloci grattano via la sabbia, lasciando una traccia evidente del loro passaggio. Un granchio forse? No troppo scontato. Mi volto di soppiatto e “becco” lo spione, anzi gli spioni! Gallinelle di mare. Splendide. Rosse come il fuoco. Pinne pettorali a ventaglio bordate di blu, sono uno spettacolo per gli occhi ma anche per il palato. Sarà per questo che se la danno a pinne levate! La fuga a zig zag sembra essere la più gettonata, anche loro mi seminano confondendomi l’orizzonte. Sono risalita di qualche metro verso la superficie. Lo avverto dalla membrana timpanica che reagisce alla diminuzione della pressione. Anche la luce è aumentata. Alzo la testa verso la superficie e mi trovo davanti uno splendido mollusco. Con la sua conchiglia “scozzese” pare indossare un kilt.
Dev’essere un mollusco da corsa: mai visto una creatura che striscia farlo così velocemente.
Tutto sembra spingermi in acqua sempre più bassa. È come se un filo d’Arianna invisibile mi conducesse in un’esplorazione guidata. Passo di creatura in creatura, sempre in risalita. Per uno strano scherzo del destino, urto il fondo, come se fossi stata gettata a terra, ai piedi di un qualcosa o qualcuno. Sono tra due massi. Una sorta di portale: l’ingresso di un regno ben sorvegliato. Un occhio mi scruta, mi legge gli intenti, sino in profondità. Messer lo polpo (Octopus vulgaris) è lì. Come un oracolo severo padrone della mia sorte, non batte ciglio. Si ritira: mi dà il permesso di passare.
Una lumaca di mare (Cratena peregrina) inchina la testa verso sinistra. Un cenno di saluto in una lingua che non ha bisogno di vocalizzi. Sembra una gran dama di corte con la sua elegante livrea colorata.
Il fondale è cambiato. Ho davvero attraversato un varco. Divenuto più roccioso e ricco di vegetazione è decisamente più grazioso. Sono ai piani alti, pochi metri mi separano dalla superficie. L’emozione mi attanaglia il cuore. So chi sto per incontrare, ne sono certa, sono venuta qui di proposito. La mia è una visita annunciata. Il paggio di corte è lì davanti a me con il capo chino in segno di rispetto. Guida il mio sguardo con piccoli movimenti della testa.
Inginocchiata sul fondo, con timido fervore faccio la riverenza a sua maestà: il cavalluccio marino. L’unico vero re dei fondali di Capo Noli.