Ti racconto un mestiere: un etto di pizza rossa per il Papa
Massimo Casali, panificatore da sempre, ci racconta l’ingrediente segreto della sua pizza. Che non è tanto, come si potrebbe pensare, la farina particolare o la lunga lievitazione o l’olio extravergine d’oliva, quanto la componente democratica di questo pasto delizioso e frugale al tempo stesso. Massimo l’ha preparata a tutti, la sua pizza: al Papa, ai parenti, agli amici, zii, impiegati, studenti, barboni, casalinghe, ingegneri, disoccupati. E al professore che sua moglie, da studentessa, ha temuto di più, come tanti altri studenti. Massimo si permette di commentare col serioso prof le partite del campionato, di scherzarci, così come fa con il cardinale X o il vescovo Y che lo vengono a trovare. Perché dal fornaio sono tutti, ma proprio tutti, uguali: uomini e donne con un trancio di pizza in mano. Massimo serve bontà lievitate a gente di ogni credo, facendo sempre attenzione alle esigenze alimentari dei clienti di religione ebraica e fornendo loro chiarimenti circa gli ingredienti usati.
Panificare è un lavoro duro, continuo, a cui ci si deve dedicare anima e corpo. Ma è un lavoro che Massimo definisce divertente, comunicativo, soddisfacente per il buon guadagno che permette. Molti ci metterebbero la firma, soprattutto sapendo che recenti studi affermano che fare il pane è un buon antidoto contro la depressione. Che gli studi siano veritieri o meno, a noi come ipotesi sembra più che credibile: impastare scaccia le teorie astratte che affollano la mente, i pensieri indesiderati, le elucubrazioni impalpabili e concretamente poco utili. Riporta ognuno al bisogno elementare di nutrirsi, di fabbricare da sé il cibo con cui saziarsi, di occuparsene, impastandolo. Fare il pane – o la pizza – è quindi prendersi cura di sé e di chi lo mangerà, è un antidoto contro il malumore, è un lavoro che camperà finché la gente, esistendo, avrà il bisogno di sfamarsi. Ed è bello vedere la soddisfazione di Massimo. Che si sveglia al mattino, controlla di avere l’organico del negozio al completo, decide il menù del giorno per l’angolo della tavola calda, calcola l’impasto necessario per le pizze della giornata e spera di cominciare una giornata piena di clienti e libera da intoppi di qualsiasi genere. Una routine evolutasi negli anni, a partire da quando lo stesso uomo, in versione baby, da appena quattordicenne, si recava a lavoro dagli zii dopo la scuola, in motorino. Si occupava di preparare sia le rosette, ché la pizza, gli altri tipi di pane erano compito dello zio. Era la mascotte del team, e mentre si infarinava le mani riceveva le coccole di tutti. Coccole che devono averlo motivato a proseguire nonostante lo sforzo richiesto dall’unione di studio e lavoro; fino a che, a soli sedici anni, era già in grado di lavorare da solo come fornaio. Poi, vent’anni fa, la pizzeria del fratello, in cui Massimo ha messo piede dopo il servizio militare. In mezzo, l’esperienza nella ristorazione a Trastevere, nel cuore di Roma, dove ha lavorato come cameriere imparando trucchi di cucina e savoir faire.
Una bella storia, un appassionante racconto di formazione continua, quello del ragazzino fornaio di decenni fa, e del pizzaiolo che oggi prepara la pizza al Papa.