Bruce Springsteen, E-Street Band & Clarence Clemons
La vita è una macchina dagli ingranaggi sconosciuti che al massimo possiamo rendere più scorrevoli, ma non certo governare. Ogni tanto qualcosa va per il verso giusto e tutto si mette a girare come mai era successo prima. Questo, pressapoco, deve essere successo nell’autunno del 1972 nei garage di David Sancious, E-Street, Asbury Park, contea di Monmouth, New Jersey, USA. Tutto è iniziato una sera, anzi, una notte, perché all’inizio degli anni 70 il New Jersey non offriva molto tempo libero ai ventenni pieni di speranze e senza troppi soldi in tasca che si barcamenavano tra lavori precari in mezzo agli insulti di quella gente che ancora divideva il paese in irlandesi, italiani e neri.
Quelle sere, proprio perché gli ingranaggi iniziano a girare quando meno te lo aspetti, uno smilzo che se ne intendeva di pianoforti e tastiere, Danny Federici, un routiner che lavorava all’ Upstage Club, Vini Lopez, un esperto di elettronica con un discreto passato alle spalle, David Sancious, un raffinato bassista cresciuto nel Jersey Store, Gari Tallent, e un giovane e spregiudicato italo-irlandese che era scampato dalla chiamata per il Vietnam fingendosi pazzo, Bruce Springsteen, le passavano a discutere di politica e quale fosse la macchina migliore per rimorchiare.
Quelle sere, che si facevano sempre notte, c’era però qualcosa di diverso nell’aria: come uno spirito e una voglia di uscire da quel mondo putrido e pieno di contrasti sociali. Proprio da quelle enormi contraddizioni, l’allegra compagnia ha creato una ballata che mischiava il soul afroamericano allo ska giamaicano e il ritmo delle canzoncine irlandesi con la voce aspra, ruvida, ma incredibilmente romantica di Bruce Springsteen: il loro front man, quello dalla faccia bella da mettere in prima fila perché attirava le ragazze. Nasceva It’s Hard to Be a Saint in the City e come una locomotiva che brucia carbone senza sosta, uno degli album rock più rivoluzionari della storia “Greetings from Asbury Park, N.J.”. Un 33 giri venduto assieme alla terra che quei ragazzi calpestavano, all’odore di olio bruciato che respiravano e al sapore di birra mescolata col tabacco.
Da quella notte, ormai sono passati 40 anni, la E-Street Band avrebbe portato in giro per il mondo quel sound inconfondibile e insuperabile che sa proprio di buon vecchio whiskey irlandese, lasciato decantare a vista e che, invecchiando, porta con se tutto il sapore del suo passato.
Più o meno le cose devono essere andate così, mi raccontò Clarence Clemons, in un noto jazz club romagnolo, una sera di diversi anni fa:
“la musica ci usciva da ogni parte,
poteva cadere una lattina di birra o una sedia e li dentro c’era l’idea per scrivere qualcosa, dare voce anche al minimo movimento della vita, che ci correva dentro e chiedeva solo di uscire. Ecco, in quei momenti è nata la nostra amicizia, prima ancora della Band, quel vivere semplice ogni minuto assieme, trovarci appena possibile per suonare e magari in testa l’ultima storia da raccontare, da scrivere e far ascoltare. Poi, tutt’ attorno sono arrivati i manager, i produttori, i fans, ma nel nostro profondo noi siamo rimasti semplicemente degli amici, che si vogliono bene, litigano e fanno la pace”.la musica ci usciva da ogni parte
A mezzo metro di distanza, Clemons raccontava la nascita della mitica E-Street Band e io non riuscivo a scrivere nulla, non riuscivo a prendere appunti, non riuscivo a far altro che guardarlo impassibile, come se stesse suonando una musica che non potesse essere mai scritta. In quella enorme sala country, davanti a due bicchieri di whiskey irlandese che non finimmo mai, a fine serata l’ho visto asciugarsi la bocca con un fazzoletto bianco e appoggiarlo sul suo sax.