Appuntamento al binario
Mi capita così. Sto facendo una cosa che mi fa esplodere la voglia di scrivere e comincio a comporre il tutto nella mia testa e viene straordinario. Mentre cammino in quella situazione, in mezzo a un mare di gente, sembra che vado di fretta e basta, persa in chissà quale pensiero delle faccende da sbrigare e invece io scrivo. Sulla mia tastiera cerebrale. Compongo per me stessa la prosa delle sensazioni che mi pervadono, in quell’istante. Meno male che gran parte delle volte sono da sola, altrimenti sarebbe una noia mortale per la mia compagnia, avere accanto una persona che non è più lì, ma davanti al suo monitor interno.
Bene, succede così. Che poi le cose da fare si moltiplicano e io non ho l’iconcina con il floppy per salvare. E la perdo, tutta quella introspezione. Si perde nella vita reale. Poi vengo qui davanti al pc a cercare di riprendere il filo, ma non c’è più. Mi dovrei comprare un tablet, risolverebbe tutti i miei problemi.
Mi ritrovo in metropolitana dopo tanto tempo. Da sola. Che bella cosa che è la metropolitana. Un insieme di persone accalcate, di piccoli mondi estranei, estranei anche alla situazione che vivono, l’essere accalcati ad altri mondi al di fuori del proprio. Tutte le volte quando qualcuno scende e magari, che so, parla al cellulare, mi stupisco sempre a pensare che la sua vita continua, all’infuori di me. È una cosa a cui non pensiamo quasi mai. Che ci sono miliardi di altre vite, oltre la nostra. Altre persone che in questo preciso istante in cui io temporeggio per riagguantare il bandolo della matassa della mia ispirazione perduta, stanno vivendo emozioni, pensieri. Lavorano, piangono, fanno l’amore, ridono. Parlano. Questa cosa me la ricordo in metropolitana, quando tutti questi sistemi imprecisi si scontrano dentro un vagone.
Sono seduta davanti a due uomini, che mi sembrano gay dalla posizione dei loro corpi. Solo che uno è sposato. E mi rispondo che non vuol dire che non sia gay, è solo sposato. Ridono. È raro beccare qualcuno che ride così rumorosamente in metro. Spesso si parla a bassa voce e si dicono frasi di circostanza, per far passare il tempo. Loro invece stanno dicendo qualcosa di estremamente divertente, solo non riesco a sentire cosa. Forse sono fratelli. Passo tutto il viaggio in metropolitana, ve lo giuro, TUTTO, a costruire la storia della loro vita. La storia tra di loro. Poi arriva la voce sensualmente meccanica della speaker che mi avverte dell’arrivo alla stazione Termini.
E io scendo, conscia di quello che sto per provare. Della stazione Termini mi piace la gente. La calca di gente a cui quasi volutamente sbatti contro, così, per avere un contatto. Crash. Quasi di riflesso cammino veloce, come a volerlo toccare tutto, quel fiume di vite. Così insieme così soli. E un po’ godo di quella solitudine. È proprio lì che comincio a scrivere. Mi si accosta una ragazza, ma non vuole parlarmi, ha solo il mio stesso passo. Camminiamo per un po’ fianco a fianco e lei sembra non accorgersene. La gente che ci guarda, forse però, pensa che siamo amiche. Lì insieme. Poi si allontana dritta per la sua strada, lontana dalla mia. Continuo imperterrita con un passo da maratona, non so neanch’io perché, non ho fretta. Ed ecco un’altra cosa che mi fa impazzire, lì tutti hanno fretta. Che può essere anche brutto da un certo punto di vista, la fretta fa perdere minuti di vita preziosi, li salti come quando fai le scale a due a due, per arrivare chissà dove. È più bello quando te la godi la scala, pezzo per pezzo. Ma no, a Termini puoi anche esagerare, anche senza motivo. C’è quell’aria della restrizione degli orari, c’è quel treno da prendere, il biglietto da fare, da obliterare e in più, la gente non se lo chiede mai perché corri. È più normale che in quell’ambiente tu corra. Così corro, perché l’essere una pecora in un gregge una volta ogni tanto dà un minimo di soddisfazione. Mi fermo solo una volta arrivata al binario.
Questo è uno dei motivi per cui ho la fissazione per i treni: mi piace da impazzire quello che succede lì, appena cominciano le rotaie, mentre aspetto il mio ospite. Mi piace guardare la gente che intorno a me aspetta a sua volta. È così bella l’atmosfera che si respira in quell’attesa. Sei lì, all’inizio del binario, insieme ad altri che come te allungano il collo e sfogliano come in un libro tutte le facce che con quella che cerchi non c’entrano niente. Una ventina di giraffe in punta di piedi che sorridono al pensiero di quando incontreranno il viso giusto, magari dopo tanto tempo. Arriva un ragazzo dal passo veloce con una rosa in mano. Una signora con una bambina eccitata. Una ragazza che fuma nervosa. E poi eccolo, il momento catartico. Quello in cui arriva il tanto atteso sorriso in quel fiume umano rigettato dal treno. Quello tutto per te. La bambina salta addosso a un signore. Forse il padre, forse lo zio. Il ragazzo dà la rosa a una donna già felice di suo, adesso un po’ più felice. La ragazza con la sigaretta, la spegne e se ne va. Forse ha cambiato idea. Forse voleva solo fumare. Forse anche lei ama quest’atmosfera qui, al binario 5, appena arrivato il treno. Un signore va incontro a una donna e la bacia, ma lei risponde freddamente. Ma forse è solo stanca.
Dopo un bel po’ la vedo, ha il sorriso che aspettavo. Mi viene incontro e l’abbraccio forte, conscia della scenografia da film della quale sono comparsa e protagonista di me stessa. Prendo la sua valigia, tutto il resto sparisce e io penso solo a lei. Felice. Prendiamo la via per tornare alla metro insieme al signore e alla bambina. Sapendo che in quel momento, io, loro, il ragazzo e la ragazza con la rosa in mano e probabilmente altre persone che non ho notato, siamo accomunati dallo stesso sentimento, nelle nostre vite estranee. Nello stesso momento è scoccata la stessa scintilla nei nostri mondi paralleli che in comune, probabilmente, avranno solo quell’istante.