Be One nel Paese delle Meraviglie (Parte 3)
Io, la scimmia Alfred, Cavolfiore, Plafoniera e Katmandù eravamo seduti sui gradini di una piccola chiesa non lontana dalla piazza centrale di Fungopoli. Erano passate ore dal gioioso e affollato concerto che ci aveva spinti ad arrivare in quel paesino dimenticato da Dio. La notte sembrava non avere termine. Eravamo intenti ad ascoltare il delirante fiume di parole di un omuncolo strafatto seduto tra noi. Il Giullare.
Stava per rivelarci una grande verità su Fungopoli. La sua più grande attrazione. Ciò che, a suo dire, attira in quel luogo gente da ogni parte del mondo… Si avvicinò e parlò sottovoce.
“Nascosto nella foresta, seguendo il sentiero che volge a Nord, c’è il vagone morto di un treno. Se riuscirete a raggiungere quel sacro luogo, troverete un grande tesoro. L’unica ver…”
Ma venne interrotto dall’arrivo di un uomo. Un signore sulla cinquantina. Grosso e rozzo. Il Re.
Vi giuro, si faceva chiamare Re Arturo nel paese.
Ci scrutò e cercò di capire chi fossimo. Il Giullare spiegò che eravamo dei tecnici e che lavoravamo per il concerto di quella sera.
Attorno a noi si erano radunati vari avventori. Alfred parlava con il proprietario del piccolo Bar, altri strani personaggi che vedevo come macchie sfocate parlottavano tra loro. Il Re ci scrutava dall’alto e decideva del nostro destino.
Eravamo ormai una decina, o forse più. Tutti erano incuriositi dai forestieri, dai tecnici della sistemistica dell’impianto. Sì, più ne parlavamo più il nostro “titolo” si allungava…
Parlammo con tutti, io e Cavolfiore continuammo la nostra farsa.
Dicemmo di aver conosciuto il Cowboy, il vecchio e ricco baffone del bar in piazza.
Ma come lo nominammo, ci fu un sussulto nei volti dei fungopolesi attorno a noi.
Ci guardarono esterrefatti. Bisbigliarono tra loro nella loro lingua.
“Ma chi Blablabla?” disse il Re, menzionando il cognome del Cowboy che nessuno di noi ricorda. “Quell’uomo non è chi dice di essere…” aggiunse il sire.
Fu un colpo al cuore per Katmandù. Il vecchio baffone era diventato un padre per lui in quei quaranta minuti al saloon. Nella mente del rocker si stavano già formando le note di una ballata country rock che avrebbe dedicato al suo mentore.
Le voci che giravano sul Cowboy erano tante, alcuni ci dissero che in realtà non possedeva nulla e che neanche era mai stato in America, altri che il suo ranch apparteneva alla moglie, scomparsa misteriosamente, altri ancora che era meglio non chiedere…
Da quei discorsi capii che Fungopoli doveva trovarsi geograficamente tra Sleepy Hollow e Neverland.
E fu in quel momento, in quel miscuglio circense di brindisi e leggende, che la situazione precipitò. Un’ombra calò su tutti noi. La folla si aprì. Una figura enorme avanzava minacciosa.
Era il Boia. Ma la gente del posto lo chiamava Il Salice.
Era alto più di due metri, girava a torso nudo con un cappuccio nero in testa. Nella mano destra impugnava una grossa ascia affilata grondante sangue.
Occhi bianchi, spettrali, le iridi erano state consumate dalle anime dei dannati a cui aveva inflitto la sua sentenza di morte.
Vi ripeto, a quel punto della serata avevamo bevuto un po’ troppo, ma rievocando i fatti tutti lo ricordiamo più o meno così.
Era uno di quei tifosi di calcio sfegatati, e noi, ovviamente, eravamo in provincia di una città calcisticamente nemica alla nostra. Era manesco e irascibile. Si fece strada a suon di schiaffoni attraverso il gruppetto che si era radunato di fronte a noi. Ed era, manco a dirlo, totalmente ubriaco.
Il Re lo guardò. Ci fu un cenno di intesa tra i due, una sorta di rispetto reciproco. Era finita, era chiaro, aleggiava nell’aria il momento del verdetto: fidarsi o no di questi quattro stranieri?
“Ecco, ci hanno scoperti. Moriremo qui, a Fungopoli e dei nostri corpi non resterà niente” continuavamo a pensare.
Cercammo inutilmente di spiegare che io e Cavolfiore eravamo gli operatori tecnici della sistemistica strutturale dell’impianto.
Ma al Boia non interessava. Il Boia voleva sapere altro da noi. Il Boia non perdona.
Ci fissò con occhi freddi. “Una domanda a testa!”, sentenziò. E aveva la faccia di uno a cui è meglio dare la risposta giusta. Cominciò con Cavolfiore. Si avvicinò a lui.
“Tu, che squadra tifi?”, tuonò.
Fiore cercò di mantenere la calma e utilizzare un tono molto amichevole.
“Beh, Juve! Alla fine la scelta di una squadra risale alla nostra infanzia. A mio padre”
Il Boia lo fissò, un po’ deluso dalla sua risposta. Era corretta.
“A te non posso fare nulla” ringhiò il mietitore.
Cavolfiore era salvo.
Passò a Katmandù. Stessa domanda, stesso tono, stessa minaccia.
Anche lui era Juventino, ma non poteva ripetere la stessa risposta. O comunque credeva di non poterlo fare.
“Io? No, io non seguo il calcio” disse il Kat con disinteresse.
“E anche a te non posso fare nulla“, bofonchiò irritato Salice.
Era il mio turno. E io davvero non seguo il calcio. Ma vale o no dare la stessa risposta? Qualcosa mi diceva che era meglio non rischiare.
“E tu? Tu che squadra tifi?” ripeté l’uomo cercando un pretesto per decapitarci.
“Ehm… gli Azzurri? Si, io guardo solo i mondiali. E ovviamente tifo per gli azzurri!” risposi, sorridendo e pregando.
Successe una cosa, a quel punto. Un ghigno deforme sembrò assumere da sotto il cappuccio.
Era una risata.
Si, lo era, gli strappai una risata e guadagnai una pacca sulla spalla. Dolorosa, la pacca, un suo pollice era grande quanto il mio avambraccio.
L’ultimo. Plafoniera. Appassionato fin da piccolo della squadra della nostra città. Orgoglioso, fiero e tesserato.
“Tu. Tu che squadra tifi?” ripeté per l’ennesima volta il Boia.
“Io tifo per la squadra della mia città. Fin da piccolo. È la mia città, fa parte di me. Immagino tu possa capire…”
Ecco, l’ha dovuto proprio dire. È finita. Addio Plafo, è stato bello. Scriveremo sulla tua lapide: “Caro amico, molestatore di fanciulle e tifoso… fino alla morte. RIP. Fungopoli 2013”.
Il Salice lo scrutò per qualche secondo. Attorno c’era il silenzio più assoluto accarezzato solo dal vento. Qualcuno deglutì, oppresso dall’ansia del momento. Ma Plafoniera continuò con orgoglio a fissare il carnefice, finché quest’ultimo non distolse lo sguardo… e sorrise.
Si, il boia sorrise. Non so se per la Juve, l’Italia o la forza della sincerità o solo perché, sotto sotto, era un panzone bonaccione.
Divertito e seccato allo stesso tempo, guardò tutti noi ed esclamò a gran voce: “Siete tutti sinceri, non posso farvi nulla!”.
Da quel momento in poi diventammo di famiglia.
Il resto della serata lo passò addirittura a offrirci da bere e a garantirci la sua protezione: “D’ora in poi, quando venite a Fungopoli, dite che siete amici del Salice!”. Ma a chi?! Ma chi ti conosce? Ma che vuoi? Ma chi ci torna a Fungopoli?!
Domande senza importanza per gente non lucida. L’unica cosa che contava era che Fungopoli, finalmente, ci aveva accettato.
Ci rivolgemmo di nuovo al Giullare. Ormai gli innumerevoli calumet lo avevano completamente stordito. Con le sue ultime forze, bisbigliò il grande segreto che stava per raccontarci prima dell’arrivo del Re:
“Nella foresta, nei vagoni di un treno che giace su un binario morto, troverete l’unica vera… pizza! La migliore di tutto il regno, di tutta Italia, di tutto il mondo. Se non avete mangiato quella pizza non sapete cos’è, la vera pizza“. Testuali parole. Poco dopo ci presentò un ragazzo pelato sulla trentina che diceva di essere un pizzaiolo. Probabilmente tanto quanto noi eravamo i Supervisori artistici della manutenzione operativo/tecnica della sistemistica strutturale dell’impianto.
Nessuno ci chiese mai di quale cavolo di impianto stessimo parlando…
Il pizzaiolo si vantò di avere un treno antico tutto suo in cui faceva la migliore pizza del mondo. Sembrava una cosa un po’ assurda, ma cosa non lo era a Fungopoli?
Ci vedeva perplessi e così, anche un po’ offeso dai nostri dubbi, ci intimò di salire in macchina. Presero me e Cavolfiore. Il Re venne con noi.
Plafoniera, vedendoci andar via con i due stramboidi, ci chiese: “Dove state andando?” Cavolfiore gli rispose biascicando sotto voce.
“Plafo, non so dove ci stanno portando, forse vogliono ucciderci. Forse offrirci una pizza. Non lo so, nel dubbio resta qua e domani manda qualcuno a cercarci. Tu, salvati!“
SDLANG!! Il rumore metallico di una portiera arrugginita.
“Uhm, si, ehm, no… cioè. Io ho lavorato con Stefano” rispondo impacciato all’energumeno seduto sul sedile davanti. L’energumeno era il Re. Nel buio riconosco di fianco a me Cavolfiore. Ero sollevato che ci fosse anche lui dopo aver pensato di essere da solo con Alfred e i due sconosciuti. Alla guida di quella vecchia automobile, c’era il pizzaiolo. Che stava portando me, Fiore e Alfred alle quattro di notte a vedere il suo ristorante, costruito all’interno di un vagone di un treno dei primi del novecento.
Dopo pochi minuti ci ritrovammo in mezzo a quella che mi sembrò una fitta boscaglia. Scendemmo dalla macchina e camminammo a piedi per una cinquantina di metri attraverso la nebbia e i sussurri della notte.
E cosa trovammo? Due vagoni di un treno antico su un binario morto. Con tanto di banchina. Tutto allestito a ristorante. Cucina, forno, tavoli, sedie. Era stupendo. Eravamo senza parole. Un treno su un binario morto in mezzo al nulla. Il Giullare non era pazzo, cioè, non del tutto. Contro ogni nostra aspettativa non ci uccisero, ma non ci offrirono neanche una pizza. Per farcela offrire, io e Cavolfiore, provammo a far leva sul suo orgoglio da pizzaiolo, dubitando apertamente del fatto che fosse davvero così buona, ma due beoni alle cinque del mattino non capiscono che il forno di una pizzeria non può essere messo in funzione in cinque minuti.
Tornati “sani e salvi” nella piazza di Fungopoli, Plafoniera e Katmandù ci vennero incontro, felici di rivederci interi. Ci avviammo verso la macchina, lungo le stradine di una Fungopoli che albeggiava.
Molti dei personaggi che conoscemmo quella notte erano lì in piazza per salutarci, ma alla luce del giorno, si sa, le cose hanno tutta un’altra forma.
Rivedemmo il cowboy, un vecchietto dai folti baffi, che ripensa con nostalgia al suo viaggio in America con una moglie che non c’è più. C’erano le due gemelle, ragazzine che probabilmente ritrovavano in quel paesino in collina quella pace che non può darti una metropoli come Londra. Vedemmo anche il Giullare, un ventenne, a dir poco patriottico, con il bisogno di pensare che la sua città è la migliore in tutto, per non sentirsi fuori dal mondo. Di fianco a lui c’era il Re, un uomo di mezza età che passa la notte in giro a ubriacarsi con i giovani del paese, senza una famiglia né figli. E che, probabilmente, a dispetto del nobile titolo che egli stesso si è dato, si sente il più povero di tutti.
Poi c’era il boia, anche lui oltre la quarantina. In giro per il paesino, di notte, cercando a tutti i costi un pretesto per scatenare una rissa, per sfogare tutti quei problemi della vita che credi di poter risolvere assestando un pugno sul muso di uno sconosciuto. E infine il pizzaiolo, un ragazzo in gamba, orgoglioso del suo lavoro, che è stato capace di trasformare un vecchio treno, abbandonato in mezzo alla campagna, in una pizzeria di successo.
Salimmo in macchina e li vedemmo scomparire lentamente nello specchietto retrovisore.
Ci lasciammo quel luogo alle spalle, con la promessa di tornare, un giorno, per il tesoro di Fungopoli: “l’unica vera pizza”.
Provai a tornare in quel piccolo paesino, circa un mese dopo. Ma, com’era prevedibile, Fungopoli non c’era più… era scomparsa nel nulla.
No, non è vero. C’era ancora. Anche la pizzeria. Sono andato nel vagone di quel treno a mangiare quella pizza e il pizzaiolo neanche mi ha riconosciuto.
Si, beh, era molto buona. Punto.
FINE