Beirut, poche ore dopo
Ho lasciato Beirut appena quindici minuti prima che l’esplosione uccidesse Mohamnad Shatah, ieri. Oggi vi racconto la pace in Libano. Eternamente provvisoria e spontanea. Torno a casa presto dopo una mattina di giri in città per il rinnovo del passaporto. La città è Beirut. A casa, le immagini in televisione mostrano fumo e feriti in una città: la città è sempre Beirut. Allarmata, chiedo ai miei zii di informarmi meglio su quanto accaduto. Loro, paciosi come sempre, esordiscono con la frase che ho imparato ad odiare. “Sono altre zone”. Il Libano anche se è piccolo è tutto zone, Beirut è tutta zone: zona sciita, zona armena, zona sunnita, zona dei drusi, zona maronita. Fino a che non esplodono tutte insieme e allora è guerra, quella vera. Ma prima di quel momento tutti ancora narrano episodi che suonerebbero qui come “hanno sparato a Napolitano”, “hanno ucciso Letta”, con una paciosa indifferenza di facciata che stupisce l’occidentale che cerca il rischio, il paparazzo, lo scoop, l’immagine forte, la notizia da prima pagina. Mi stupivo anche io, fino a quando ho capito che la loro è solo abitudine a tenere i denti stretti e a goder di un equilibrio provvisorio, perfetto finché c’è, sapendo che non è per sempre. Abitudine a farci l’abitudine, a mantener pazienza. Qui può sembrare assurdo. Come quando non perdono le staffe mentre impiegano due ore per percorrere un tragitto che richiederebbe venti minuti, come Beirut-Jounieh: imbottigliati nel traffico con la proverbiale espressione paciosa.
Nel pomeriggio poi mio zio mi porta sul mare vicino Byblos a vedere il tramonto. È lì che capisco tutto, capisco e decido di raccontarvi la pace che c’è qui, in questo tuorlo infuocato inzuppato nel Mediterraneo. La pace irrequieta di questo paese disgregato ma unico, nei rari sprazzi in cui il tumulto si placa e si intravedono attimi di quiete. Anche se sulla stessa costa, poco più giù, il fumo in aria è ancora nero.