La felicità passa attraverso la grande bellezza
M’era venuta voglia di partire, han cancellato i treni con un colpo di led. Tanto per i pendolari c’è sempre un bel trattamento. Aspettiamo, nelle stazioni fatiscenti, la nostra partenza, traslata nel tempo. Il nostro tempo non è denaro, il nostro tempo non conta. Il loro, evidentemente, sì. Quello dell’Alta Velocità un poco di più. Ma tant’è.
Son tornato a casa, la pioggia nelle scarpe non è dolce oggi. Sprofondo nel divano. Questo giro le vacanze non mi piacciono. Non ci sono nemmeno tante luci per le case. L’austerity. Dio solo sa se le luci si sono spente anche dentro, in qualche parte dell’anima. Cammino. Mi ritirerò in studio a guardarmi un film. Ho comprato lo stesso modello di occhiali che avevo perso due settimane fa.
Non so bene dove si trovi la felicità, anche se un’idea su dove cercare ce l’ho. Di certo c’è una cosa che ne blocca la strada per raggiungerla. L’ipocrisia. Quella degli intellettuali arrivati, per esempio. Che guardano il mondo da un oblò a mille miglia di distanza. Chiusi ermeticamente ed ermetici se non tra loro stessi. Fingendo. Quelli che fanno i trenini alle feste. Che sono belli perché – i trenini – non vanno da nessuna parte. E girano e girano e girano. Lo racconta bene Jep Gambardella ne “La grande bellezza”, un film che vincerà l’Oscar e che vi consiglio di guardare perché illumina.
Poi ti scrivono, a Natale. Scrivono che dispiace non vedersi più. Ma quando ci si vede, ci si sta zitti. Qualcosa non va. Oppure sì, oppure boh. Che schifo, l’ipocrisia. Quella degli intellettuali arrivati, presumibilmente di sinistra e – sì – un poco strafottenti verso il resto. Quelli che poi si sono sposati con la politica, entrano nei Ministeri, fanno molti danni. Sono stati la rovina di questo Paese, assieme ad una classe industriale che è andata a nozze con la rovina e ad una classe politica che di politica non ha nulla, a parte qualche isola felice. Che non è la felicità mondana. Non è quella delle feste e delle foto tutte uguali, modificate, colorate, raffreddate. Tutte con un bicchiere in mano. Un tuffo verso il nulla. Facile sprofondarci, e dona anche una pseudo beatitudine che, subdola, poi, inizia a logorare. Pareti lisce, difficili da risalire senza aver la possibilità e la voglia di guardarsi allo specchio, riviversi rivedendosi.
Ho pensato a tutto questo, assaporando “La grande bellezza”. Forse non è troppo tardi.