Un regalo dal Canada
Mi capita raramente di ripensare ai viaggi che faccio. Primo perché sennò mi viene l’immediata voglia di ripartire, secondo perché… no, per lo stesso motivo.
Mesi fa parlavo con un fotografo calabrese, che a un certo punto della vita ha deciso di trasferirsi a Toronto per cercare fortuna. Io ho trascorso a Toronto una settimana di vacanza, dopo essermi allungata giusto un attimo alle Cascate del Niagara (belle, le cascate, solo sembravano più grandi e meno bagnate in t;, nessuno ti dice che, se sei fortunata come me, e becchi tre giorni di pioggia e vento, devi girare per la strada con un sacco della spazzatura gigante addosso, perché piove dal cielo e piove anche dalla cascata, pensa, acqua che arriva da tutte le parti come se non ci fosse un domani, e nonostante tutta quella plastica addosso che ti fa sentire un pacco postale ambulante, tornerai in albergo con tutti, e intendo davvero tutti quelli che potete immaginare, gli indumenti zuppi).
Su Toronto ci sarebbe molto da dire, ma la prima e più sconvolgente notizia che ho assimilato è stata che il fotografo in questione era scappato. Non ne poteva proprio più, dopo un po’. In Canada fa freddo. A Toronto sono tutti stronzi. Non c’è posto per la gente come noi. E così, finisco con il ripensarci a quei giorni passati là e mi ricordo solo che quello che ho respirato, per le sue strade, è stata aria di serenità. Quella che c’è nei paesi civili, dove le cose vanno bene, le persone sono felici e i loro diritti rispettati. E per spiegare quest’ultima dichiarazione, devo raccontarvi una storiella.
Il primo step di ogni mio viaggio all’estero è il caffè da Starbucks. Cinnamon roll e caffè macchiato al caramello. Davvero, non sono all’estero finché non faccio questa cosa che sembra scema, ora, a scriverla, ma per meè come il check-in all’aeroporto. Tutte le volte resto un po’ delusa, perché i Cinnamon Roll che fanno negli Starbucks del mondo, non hanno nulla a che vedere con quelli di Berlino. Ma questa è un’altra storia.
Insomma, a Toronto, Canada, Ontario, entro nel primo Starbucks disponibile e mi serve il caffè una ragazzona. Grossa eh. E anche un po’ strana, tendente al brutto. Finché non mi parla e capisco cosa non torna. Un trans. Un trans mi ha guardato e mi ha detto “Tall, sweeetie?”.
Sì, ti prego, grazie, dolcezza. Te ne compro due da quanto mi piace vederti qui, in magliettona e grembiulone. Perché dal paese dove vengo io, tu staresti per strada. In tutti i sensi possibili e impossibili del termine. E qui invece hai un datore di lavoro che ti paga uno stipendio e probabilmente anche i contributi, perché in te vede una persona. Dammi anche il tuo numero di telefono, sweetie.
Mi devi raccontare che bel paese che è il tuo. Uno dove se per strada fissi la gente per più di dieci secondi quella, invece di fulminarti, sorride. Uno dove in metro uno sconosciuto di sessant’anni incontra una ragazza di colore che sembra Halle Berry e ci scherza, con tanto di gomitate amichevoli e manate sulle braccia e quella se la ride, invece di guardarlo come fosse un maniaco sessuale. Uno dove camminando di fretta verso il traghetto leggi su un rettangolino di cartone poggiato a terra la scritta Pennies or just a smile, alzi gli occhi e trovi un mendicante con pochi anni più di te, che lo sa che non gli darai niente, ma non fai in tempo a mettere a fuoco tutto il suo viso che una mezzaluna di denti già è lì. Uno dove ti portano le ricevute ai ristoranti con un cerchio intorno alla dicitura “Mancia non inclusa” e uno smile con la parentesi che è più sornione che simpatico.
Cinque dollari a botta, mica pochi. Poi dici che non ti fai un panino per strada. Sanguisughe.
È un posto, il Canada, dove le donne guidano gli autobus. Come se fossero Schumacher che si è dimenticato l’esistenza del cambio, ma non ci prova neanche a rallentare. Così sfrecciando a cento chilometri orari, in terza, su un coso di lamiera enorme che fa il rumore di un jet a propulsione, viene da chiedersi se era davvero il caso di preoccuparsi così tanto della morte di Osama Bin Laden, avvenuta pochi giorni prima della tua partenza, e di qualche nuovo 11 settembre con te dentro l’aereo, quando la probabilità di finire schiacciata contro un guardrail, americano, per carità, per colpa dell’emancipazione che in questo paese ti ha tanto soddisfatto vedere, è di gran lunga superiore. Almeno con l’attentato avrebbero letto ad alta voce il tuo nome, in una piazza gremita di gente, che piange senza sapere chi eri. “Francesca, 26 anni, lascia una famiglia numerosa e una carriera da blogger incallita”.
Insomma, il Canada è un posto dove succede tutto questo e anche altro. Ci sono coppie miste, mistissime, bianchi con neri, neri con gialli, gialli con bianchi. Una frittata di Dna. E ragazzi e ragazze globalizzati dalla nascita bellissimi, mulatti con gli occhi azzurri. Ragazze cinesi che sembrano uscite dal film “Memorie di una geisha”. E se il tuo boyfriend poi si gira a guardarle per strada tu non è che puoi dire niente. Guardi con lui.
Si parlano centocinquanta lingue, perché è la città con più etnie del mondo.
E un giorno, stanca di Starbucks, vado da Tom Hortins, una cosa del genere, e ordino un caffè. Regular. Small. E poi mi giro verso il mio compagno di viaggio e gli chiedo quale ciambella vogliamo. E la ragazza, che sta aspettando che i soliti turisti si raccapezzino di fronte ai cinque metri quadri di porcherie fritte e altamente caloriche che ha alle spalle, dice: “Ah! Ma siete italiani!” e io “Ah! Che bello, non mi devo sforzare a pensare se “quello” si dice this, that o qualcos’altro che sicuramente è l’opzione giusta e che puntualmente mi scordo”. Sì. Italiani. E lei mi dice che in Italia ha passato tipo dieci anni. E io le chiedo, con un acume da tg1: “e come mai sei tornata?”. E lei mi guarda. Passano due secondi intensissimi, in cui ho distintamente avvertito il ticchettio di tutti gli orologi della caffetteria. Pupille nelle pupille effetto ipnosi mi sembra di sentirle dire “Dai. Dai dai dai dai. Non vuoi sentirtelo dire per davvero che il tuo paese non è un posto bello dove vivere. Non vuoi che io te lo dica”. La versione ufficiale che le esce dalle labbra è: “mmm… fifty fifty”. Ho capito meglio cosa ha pensato rispetto a cosa mi ha risposto. Che vordì fifty fifty? Sicura che ci sei stata dieci anni? Ci siamo fatte una risata, perché, dai, davvero, c’era mica bisogno di una risposta sensata?
Prendiamo una cosa che somiglia a una bomba alla crema con l’aggiunta di una glassa bianca e marroncina, che forse è succo d’acero, glassato anche lui. O forse no. Difficile capire il gusto della roba americana. Dio, come amo questo paese!
Viverci per mesi, forse, sarebbe stato diverso. Ma assaggiare altre realtà, in cui il trans che ti serve il caffè è solo la più clamorosa delle situazioni, ti ricorda che i viaggi più lontani vanno e meglio è, e servono anche a dimostrarti che un altro mondo è possibile. Uno che rispecchia quello che immagini, desideri, aneli per te. Insomma, non sei pazza, è solo che, dove vivi tu, devi cercare di costruirtelo giorno per giorno. Il viaggio ti ricorda che si può fare, alla Obama maniera.
E questo piccolo messaggio di speranza è il mio regalo di Natale per voi, alla faccia della crisi.