Era la bella Damasco
Le foto sbiadite odorano di vecchio e mi riportano a quel tempo in cui le macchine fotografiche avevano i rullini e per chiamare a casa ci si arrangiava senza Skype. A quando la Siria era ancora una terra gaia e ridente, la guerra stava oltre le montagne e sembrava che niente e nessuno potesse mai turbarne la serenità. Era la Damasco che non c’è più, com’era prima dei massacri, del dolore e della disperazione. La mia prima esperienza nei paesi arabi, il mio primo grande amore.
Il sole del mattino già accarezza i tetti quando dalle cucine si diffonde il profumo del caffé al cardamomo. Le voci dei venditori ambulanti vagano per le strade con le donne, che di ritorno dal mercato portano il pane fresco sugli avambracci.“Sabah el kheir! Sabah el nour!”e Damasco apre gli occhi su un nuovo giorno.
La vecchia Qaymarieh, coperta da un manto di rampicanti che scendono come pioggia sulla strada, si riempie di vita: i commercianti alzano le serrande e sorseggiano il primo té della giornata. C’è il fruttivendolo che mette in mostra i melograni, il ciabattino sordomuto che taglia la pelle con cui fare i sandali, l’orafo che si appoggia allo stipite del suo negozio di collane.
Ragazzi dai capelli scuri pettinati all’indietro con il gel ci lanciano sguardi smaliziati mentre noi, passando tra le bottegucce con la merce in esposizione, raggiungiamo la moschea degli Omayyadi.
Con il vento arriva l’odore delle pietre antiche, lucide sotto il sole del mezzogiorno, su cui i bimbi corrono e gridano eccitati dal gioco. Si prega, si parla, si studia, si mangia.
“La moschea é tutto questo – dice Bashar – la moschea racchiude la vita”.
E non solo. Perché in questo luogo, che in antichità fu tempio romano e poi chiesa cristiana, hanno pregato per più di duemila anni uomini di fedi diverse. Le mura hanno accolto in silenzio le invocazioni di ciascuno. E con la testa di Husain, figlio di Maometto, custodiscono ancor oggi le spoglie del Battista.
Un padre stretto nella galabiya bianca insegna al figlio come fare le abluzioni mentre delle ragazze in nero, probabilmente di origine iraniana, ci sfiorano con un fruscio delle vesti. Questa è solo una tappa del loro pellegrinaggio: le incontreremo di nuovo alla moschea di Saida Zeynab, dove anche noi vestite di nero, con addosso l’abaya lunga fino ai piedi, visiteremo per la prima volta un luogo di culto sciita.
I mosaici vestono di colore le facciate, i versi del Corano corrono in caratteri d’oro sullo sfondo blu. Entriamo in una sala affollata, dove nonostante le ventole manca l’aria. Donne piangenti si gettano sulla tomba di Zeynab la Grande, figlia di Ali nipote del profeta. Ci strofinano i bambini, vi lanciano vestiti e oggetti. Una vecchina passa lo straccio con noncuranza.
L’Arabia che sognavamo chine sui manuali dell’università l’abbiamo ritrovata nei souk e nei caffé.
Quando entriamo al Nawfara, il locale forse più famoso di Damasco, il muezzin sta ancora cantando e i riflessi del cielo al tramonto tingono di rosa l’acqua delle fontane. La sala gremita di uomini è immersa nell’aroma fruttato degli arghilé. Un cameriere ci serve il té alla menta che iniziamo a sorseggiare osservando il via vai della strada.
Entra con il fez rosso in testa, un libro sotto il braccio e nel locale gli schiamazzi si placano all’istante. Alza i lembi della tunica beige per non inciampare mentre sale sulla pedana dove sta un trono in legno intarsiato. Si mette comodo e si schiarisce la voce.
L’Hakawati Abu Shadi è uno degli ultimi cantastorie della Siria, e certamente il più famoso. Ogni sera dopo la preghiera, con gli occhiali sulla punta del naso e un bastone che fa roteare ripetutamente in aria, narra le gesta degli eroi del passato, le tristi storie d’amore tra bellissime principesse e nomadi del deserto, le vicende più strambe capitate ai personaggi eccentrici della tradizione araba e musulmana.
E’ a quell’ora della sera che la città emana tutto il suo fascino. Nei cortili interni dei ristoranti, accompagnati dallo zampillare delle fontane, cantanti e suonatori di liuto riscaldano l’atmosfera, e non di rado c’è chi si alza a ballare la dabka, saltando e scuotendo in aria i fazzoletti al ritmo coinvolgente della musica.
Le note delle canzoni popolari, le risate e gli applausi salgono fin sui tetti, fino a noi, che dall’alto contempliamo in silenzio il panorama. Le luci blu delle chiese si mescolano a quelle verdi delle moschee. In lontananza si distingue il profilo del monte Qassioun, che con la sua tranquillizzante immobilità sembra voler proteggere Damasco dagli scontri che in quei giorni sconvolgono il Libano.
Sedute su una coperta stesa sul cemento ancora caldo, Batul prende la tazza sulla quale ho appena bevuto il caffé turco che lei stessa mi ha servito. La rovescia sul piattino, attende qualche minuto e poi la rigira, scrutandoci dentro con attenzione. Batul cerca di sbarcare il lunario come può. Madre di tre figli, un maschio e due femmine, ogni sera apre le porte di casa a chiunque voglia sedersi a tavola e per un prezzo modico cenare in compagnia.
Mi spiega che a leggere i fondi del caffé -o “aprire la tazza”, come si dice in arabo- gliel’ha insegnato sua madre. “Ma le mie figlie non lo sanno fare -dice in un sospiro- e forse è meglio così”. Le immagini che mi indica, e che anch’io vedo, assomigliano a quelle incise sulle pareti delle caverne preistoriche. Batul mi racconta una storia già sentita, la mia, e quando alza gli occhi sulla mia faccia pallida scoppia in una fragorosa risata.
Nei vicoli della città vecchia la brezza della notte porta il profumo dei gelsomini. Cammino pensando a ciò che mi era capitato quel mattino, quando mi ero fermata dall’orefice perché tra le collane in mostra ce n’era una che aveva attirato la mia attenzione. Il pendente aveva la forma di una rosa, la rosa di Damasco. “E’ cara, non la compro” avevo detto facendo finta di andarmene con la speranza di far scendere il prezzo. Il gioielliere non si era fatto impressionare “C’è un detto siriano che recita: se compri quel che ti piace, seppur a caro prezzo, piangerai una volta sola. Se non lo compri piangerai per sempre”. E aveva ragione: una collana così bella non l’ho più trovata da nessuna parte.
A distanza di anni intuisco ciò che forse quell’uomo intendesse dire, ossia che ciò che é adesso non sarà mai più, ed è meglio coglierlo appieno, che del domani non v’è certezza. Niente di più vero. Buonanotte Damasco, ti ritroverò nei miei sogni.