Be One nel Paese delle Meraviglie (Parte 2)
La tiepida notte estiva avanzava, e il cielo cominciava a nascondere le sue stelle dietro cupi nuvoloni.
Sorseggiavo un drink in quel vecchio saloon nella piazza di Fungopoli. Katmandù era intento a spiegare al vecchio cowboy perché, pur essendo un uomo, avesse settanta centimetri di capelli. Alfred discuteva con un anziano signore seduto di fronte a noi. Credo parlassero di ciò che rendeva famosa (secondo lui) Fungopoli nel mondo: i chiodi. Chiodi veri, non i funghi. Non riesco tuttora a pensare a un argomento più noioso. Gli altri due del gruppo, Plafoniera e Cavolfiore, erano dispersi.
Ma ad un tratto sentii la voce di quest’ultimo, poco distante da me. Era seduto di fronte a due fanciulle, intento in un’amichevole conversazione.
Osservando meglio le ragazze, mi resi conto di un qualcosa che, probabilmente, al buon Cavolfiore era sfuggita.
Erano minorenni. Molto minorenni.
Mi avvicinai cautamente con l’intento di avvertire il nostro amico dell’infausta valutazione anagrafica, ma quando fui a un paio di metri da loro cominciai a udire strane voci… o meglio strane parole… Dopo pochi istanti realizzai che erano inglesi.
Due inglesi? A Fungopoli?
Incuriosito dalla cosa, mi presentai e mi inserii nella conversazione. Parlammo nella loro lingua.
La gente ormai abbandonava la piazza. Le due quindicenni erano appena illuminate dalla fioca luce di un lampione arancione che affievoliva i dettagli e le rendeva molto simili tra loro. Forse erano gemelle. La notte ci avvolgeva, le luci del concerto si erano spente e una sottile nebbiolina si spargeva nell’aria.
Fissando con occhi vitrei il loro smartphone, le due ragazze ci concedevano risposte brevi e inespressive. Avevano una voce meccanica e glaciale. Parlavano quasi all’unisono.
Riuscimmo a capire che venivano da Londra.
Dopo qualche minuto, cercai di bisbigliare a Cavolfiore in un dialetto molto stretto: “Vieni via, queste hanno quindici anni!”.
Lui mi guardò perplesso. Poi guardò loro. Poi di nuovo me. Fece un cenno con la testa e pose loro un’ ultima domanda.
“Quindi, siete di Londra? Ma cosa ci fate qui?! Bella Londra eh?” esclamò Cavolfiore.
Alzarono contemporaneamente lo sguardo dal telefono. Ci fissarono in silenzio. Poi risposero all’unisono, lentamente.
“Londra? No, Londra fa schifo. A noi piace Fungopoli, noi vorremmo vivere qui!”
Poi si alzarono, si presero per mano, e allontanandosi scomparvero nella nebbia. Ho ancora i brividi.
Poco dopo ritrovammo anche Plafoniera, era di ritorno da una, poco fruttuosa, danza del corteggiamento con una ragazza del luogo. Ci riunimmo tutti e quattro, più Alfred.
Qui c’è un buco narrativo di un’ora circa. Tutto ciò che siamo riusciti a ricostruire è che io e Plafo abbiamo forse rubato delle salsicce al gruppo musicale che banchettava a fine concerto. E poco dopo, ricordo di averlo trascinato via a forza perché stava chiacchierando troppo amabilmente con la ragazza del bassista.
Ormai era notte fonda… Fungopoli, illuminata da sparuti lampioni e una grande luna, regalava suggestivi giochi d’ombra e faceva da cornice a loschi figuri. Alfred cominciò a tamburellarmi in testa… voleva una birra.
Ci spostammo in un piccolo bar poco fuori dalla piazzetta centrale, addentrandoci in un territorio ancora inesplorato. E questo fu l’errore più grave: quella era la zona del Re, del Boia e del Giullare.
Camminavamo sui ciottoli di una vecchia stradina, intorno a noi vecchie casupole con finestre sbarrate ci davano un’idea indicativa dell’orario. Era notte fonda, ma il bar era ancora aperto. Ed è lì, all’entrata del locale, che si avvicinò a noi un giovane mingherlino e frenetico con una vocina stridula e un dialetto assai strano. Era il Giullare.
Anche se a quel punto avevamo bevuto già svariati cicchetti, e birre, e altri cicchetti, sono quasi sicuro che avesse un cappello a tre punte, blu e rosso, con tanto di campanelli. Ci accolse, sogghignante e saltellante. Un ragazzino di vent’anni, spocchioso e insolente, che parlava continuamente, e per lo più di quanto Fungopoli fosse una terra meravigliosa. Continuava, inoltre, a usare un simpatico intercalare atto a farci notare che, seppur noi venissimo da un città, il suo paesino era nettamente superiore: “Maaandò vivìti?”.
Tradotto dall’antico fungopolese: “Ma dove vivete?”.
Parlai con lui, cercando di capire come facesse quel buco di posto a far impazzire i suoi abitanti. Durante la conversazione menzionai Roma e il fatto che avevo vissuto lì per qualche anno. Egli ridacchiò. Fece buffe smorfie. I campanelli del suo cappello tintinnarono. Mi guardò dritto negli occhi e mi disse:
“Ma perché, tu vuoi paragonare dal punto di vista storico Roma con Fungopoli?! Tu non hai idea di cosa c’è qui!”
In quel momento uno stormo di cornacchie si alzò nel cielo, un gatto nero cadde da un tetto, in lontananza si udì il rumore di un bicchiere in frantumi e Plafoniera ruttò.
Rimasi a bocca aperta, avevo così tante cose da dire per distruggere quell’insolente che non ne uscì neanche una. Non riuscii ad emettere un suono. Chiusi lì il discorso, le sue parole mi avevano tramortito più di quel miscuglio che bevvi a una festa di giapponesi a Firenze un mese prima.
Ora ne ero certo, Fungopoli era maledetta.
Dovevamo liberarci del Giullare, e ci restava un’unica soluzione: scatenare Cavolfiore. Il suo entusiasmo, le sue continue domande e il suo innato interesse per chiunque, avrebbero dato al Giullare pane per i suoi denti. Parlarono per molto, divennero amiconi. Il giovane saltimbanco ci accettò e condivise con noi il calumet della pace. Molti calumet della pace. Fu verso il terzo che Cavolfiore fece una mossa azzardata, molto azzardata. Con la più totale naturalezza, se ne uscì con:
“Io e Be One siamo qui per lavoro. Hai visto il palco di stasera? L’abbiamo montato noi. O meglio, ci siamo occupati dell’impianto”
?!?!
Mi trattenni dallo sputare il sorso di birra che stavo mandando giù in quel momento. Io e Alfred ci guardammo. Katmandù soppresse una mezza risata.
“Si, tutta la sistemistica dell’impianto… un lavoraccio!” dissi con orgoglio.
Alfred scese dalla mia spalla, alzò un sopracciglio.
“La sistemistica dell’impianto?” mi chiese ridacchiando. Sì, la sistemistica, ok? Stupida scimmia…
Ma il Giullare sembrò crederci, stravedeva per noi, e fu in quel momento che ci rivelò il grande segreto di Fungopoli.
Continua…