Istantanee dall’Australia
Meno una settimana alla partenza. Per dove? Eh, si scoprirà a breve. Nel frattempo, ricordo quando Samuel dei Subsonica cantava
senza parole nel traffico del mondo, vivo, inquadro istantanee orbitando sul mio giorno, guardando contro sole, la vita che si muove”
e decido di improntare il diario di oggi sulle istantanee di questa settimana.
Cominciamo dal sabato e dalla domenica passati a vendere hotdog nei camioncini che si piazzano fuori dagli stadi e che qui sono prerogativa dei cinesi. Bugia, o meglio: il proprietario dei mezzi è un australiano di nome Tony, che ha passato parte della sua vita in Italia; ha comprato una serie di camion bilico per venditori ambulanti di hot dog, appunto, e ci ha messo il nome Auto Caffè mentre, il personale ha pensato bene di assumerlo tutto cinese (mi astengo dal dire come e perché, primo perché non lo so veramente, secondo perché le illazioni, presupposizioni, e considerazioni del caso, sarebbero comunque… superflue). Colei che gestisce il business di Tony è una delle ragazze che, come me, aiuta e supervisiona il catering ebraico. Parlando del più e del meno, un giorno, durante una funzione sempre ed esclusivamente kosher (se non ricordate a cosa mi stia riferendo, fate-un- salto su OzzieNotes della settimana scorsa) esce il discorso dell’altro lavoro di Alice, che è quello per cui, ora, lavoro anch’io. Alice è la collega, di origini filippine ma trapiantata prima come studentessa poi, dopo cinque anni, naturalizzata australiana, con la quale lavoro al catering.
Durante la calda mattinata il rumore di un aereo a non altissima quota attira la mia attenzione. Esco. Sta scrivendo qualcosa nell’etere. Penso “E avanti con un’altra dichiarazione d’amore. Ma cos’è? A Melbourne non sanno comunicare con carta e penna?”. Poi inizia il gioco “decodifica la scritta in cielo” con uno dei vicini di casa. Lui si arrende alla seconda lettera. E’ troppo lento a volteggiare per aria. Io aspetto pazientemente. Sorpresa! Era solamente qualcuno che avvisava del concerto di Bon Jovi da lì a poche ore. Yay! Io ci vado. In un certo qual modo insomma. Gratis per così dire. Sì dai, lo sento dall’esterno. Penso alla mia amica Elena, che adora Bon Jovi. Filmo la scritta in cielo e gliela invio. Sorrido.
Piazzate fuori dall’Etihad Stadium di Melbourne, dalle sei del pomeriggio, facciamo parte anche noi del team “Gigi-il-troione” australiano, scusate il gergo ma lo si chiama veramente così nella mia zona d’origine, e non posso ovviare al termine perché, basta nominarlo, e tutti, nel raggio di cento, forse più, chilometri dalla provincia di Venezia e Pordenone, sanno esattamente a chi mi stia riferendo. In generale però, chiamiamolo solo “il paninaro”. Non vogliatemene.
Inizia a fluire l’ammasso di gente che entra per il concerto, tutte le età sfilano davanti a noi, ma per lo più, hanno tutti sui trenta, forse meglio, quarant’anni. Anche di più. La prossima settimana ci sarà Taylor Swift, e sicuramente il range d’età sarà più basso. Chi è? Ecco, esatto. Non importa. Perché? Perché quando, tutta gasata, io cantavo e ballavo facendo dondolare il camioncino al suono di It’s my life, o fingevo di accendere l’accendino alle note di Wanted dead or alive, in versione acustica, o ricordavo gli anni passati urlando “oh oh! Living on a prayer”, le cinesine mie colleghe credevano fossi pazza perché non sapevano nemmeno chi fosse quel buffo personaggio con la chitarra in mano. I mean, cioè dico, ok tutto, non sarà Justin Bieber, ma ragazze, per quanto non sia il mio preferitissimo cantante rock, stiamo parlando di Bon Jovi, non di Pluto Vattelapelapesca di Pescincanna (se esistesse davvero cotal personaggio, ammazzetemi!). Vabbè. Scuoto la testa e continuo con il mio divertimento interiore. Tutte serie a scattare come macchine per vendere hotdog, e io l’unica che riesco a divertirmi mentre lavoro. Mah! In fin dei conti, basta ridere un po’ e anche il lavoro sembra meno faticoso. No?
Scopro solo a metà concerto che ci è permesso di entrare allo stadio con la scusa della toilette; gli uomini e le donne della security infatti, sapendo chi siamo, riconoscendoci dalla “divisa” pantaloni neri e maglia rossa, ci lasciano passare. Mi fermo cinque minuti in più per godermi lo spettacolo almeno per quel poco che mi è concesso. Mi scende una lacrima di emozione, perché io, ai concerti, ci andrei ogni giorno; vorrei quasi essere un palco, per poter sentire le vibrazioni del basso, il suono delle chitarre e i battiti della batteria non solo con le orecchie ma con ogni cellula del mio corpo. Adoro persino l’odore dei concerti, e no, non quello di birra o di sudore, ma il talco degli effetti speciali, i vapori dei led e degli spotlight, il vinile. Esco inebriata di musica e vedendomi ancora più carica, mi viene chiesto “Ma poi, qual è il senso di andare ad un concerto?”. Prendo l’interlocutore per i capelli, lo immergo prima nell’acido, poi rosolo un po’ sull’olio delle patatine fritte dietro di me, e lo faccio a pezzettini sottili per essere servito con gli hotdog.
Che razza di domande sono? Ma stai bene? Io resto sbigottita e semplicemente, cercando di renderla il più simpaticamente possibile, rispondo “scusa, ma non posso rispondere a questa domanda”.
Il giorno dopo, la stessa storia, se non fosse per il fatto che scopro che l‘opening act del concerto, è Kid Rock. Sì, esatto, colui che ho abbracciato e salutato quando è venuto a supportare i ragazzi dell’aeronautica americana ad Aviano nel 2007, colui che ha firmato la chitarra del mio amico (sotto suggerimento mio) con stupore per un’idea così carina in mezzo a tanti cd e foto ics. Ok, non si ricorderà sicuramente nulla di tutto ciò, ma com’è che qui nessuno sa nemmeno della sua esistenza, tanto da non considerarlo nemmeno degno di nota? Chi lo sa. A questo punto, vado alla toilette quelle due o tremila volte e vedo un po’ di questo e di quello. E anche i quattro soldini presi “cash in hand” per questa settimana, ci sono. E grazie al cielo, anche la musica assorbita per via osmotica.
Passato qualche giorno, penso bene di applicare qualche modifica al mio aspetto esteriore presa da un momento di pazzia. Sono solita farmi prendere da momenti “fallo! fallo! fallo”, per poi ritrovarmi a lavoro compiuto con un “ma che cavolo ho fatto?” e ora stento a riconoscermi allo specchio. Forse meglio così. Non per Lidia, la ragazza che la mia amica Silvia dice sia a Melbourne e che dovremmo incontrarci perché sicuramente si andrà d’accordo. Detto fatto. Lei mi cerca per mezz’ora fuori da Starbucks perché tenta di trovare una ragazza con sembianze diverse da quelle che si ritroverà davanti, e io capisco la grande… sciocchezza… del cambiamento repentino. Come dicono qui “Dazen meda” ossia “doesn’t matter”: non importa. Beviamoci, ridiamoci e parliamoci su… e scopriamo di avere mille cose in comune. Sono contentissima, ci salutiamo e ci mettiamo d’accordo per risentirci.
Tornando a casa passo davanti a due immagini che attirano la mia attenzione: una, in stile Banksy, mi piace assai, ve la allego qui; la seconda mi ha fatto sorridere, perché può essere interpretabile in più di un modo… il mio è :
com’è che tutto ciò che riguarda il – risolvere i problemi – viene associato con – i problemi di cuore?”
A voi l’ardua sentenza, a me invece: it’s myyyy liiife, and it’s now or never… I ain’t gonna live forever… IT’S – MY – LIFE!