Ti presento un mestiere: l’antropologa e l’Altro
Dopo la web master, lasciamo di nuovo le macchine e passiamo allo scambio umano: l’antropologo. Anzi, l’antropologa, perché questa settimana si è fatta intervistare per noi di FUS Barbara C., che racconta l’antropologia di oggi a chi si aspetta di trovare un uomo vestito da esploratore, munito del suo inseparabile berretto, binocolo, lente d’ingrandimento. Sorpresa! Gli antropologi sono fra noi, vivono a Roma a Napoli a Palermo o, come Barbara, a Milano. Si aggirano per le strade, osservano come tutti e anzi un po’ di più, studiano. Che poi l’aveva già scritto Marc Augé, che gli etnologi stanno anche nel metrò. E oggi che l’altrove non è più studiabile in quanto altrove e che l’Altro è chiunque ci si avvicini e non soltanto chi viene da lontano, oggi che il Lontano e il Vicino si fondono al momento di scambiarsi fra loro, oggi che l’ottica eurocentrica per fortuna comincia a perdere l’infallibilità e addirittura la credibilità, oggi sì che c’è bisogno di antropologi ovunque.Multicultural-globe.
Che poi in realtà allontanarsi del tutto da una visione eurocentrica è impossibile perché significa allontanarsi da sé, che non si può gettare sulla cultura uno sguardo aculturale, che non ci si può staccare dagli occhi le lenti con cui si analizza il mondo ma beh, gli antropologi ci si impegnano e a me, personalmente, hanno sempre affascinato. Poi è un lavoro che non farei mai perché estremamente concreto quanto sommamente astratto, il tutto e il nulla, l’antropologia di oggi, quella senza l’esploratore balzano, si può applicare a tutto, avvicinare a tutto, il famoso “sguardo antropologico” lo si può gettare su ogni cosa, sulla storia, la società, le religioni – l’ha fatto magistralmente Ida Magli in vari saggi – , la psicologia, la società il turismo, insomma davvero tutto. Avere occhio analitico sul mondo però non basta ad essere definibili antropologi. Gettare un’occhiata antropologica non basta ad essere antropologi, non oggi che il classificabile della fetta esotizzante del mondo è stato già perlopiù classificato e rimane da analizzare materiale nuovo che prolifera anche nella fetta di mondo a cui siamo invece più abituati.
Ma lascio parlare Barbara, ché l’antropologa è lei. Le chiedo anzitutto qualcosa delle sue giornate tipo.
Dipende dalla giornata! Ti racconto quella di oggi. Sono andata in Casa delle Associazioni, mi sono messa d’accordo con la signora di un centro di ascolto per fare una consulenza antropologica per i loro immigrati nei corsi di italiano.
Aiuto: ma le consulenze non erano al massimo psicologiche? Di che parli?
Allora: fare una consulenza antropologica significa cercare di interpretare pensieri e atteggiamenti di una persona alla luce della sua cultura, ma anche dell’incontro tra culture degli interlocutori, il che può anche comportare non pochi fraintendimenti. In questo caso si tratta di seguire i corsi di italiano e cercare di comprendere i problemi di disorientamento culturale che le persone hanno nel rapporto con lo spazio e i servizi anche se – cosa interessante – alla signora, che è cattolica, interessava soprattutto che io insegnassi la Nostra cultura, tipo educazione civica, agli immigrati… Capirai che dialogo! Poi mi è stato chiesto un aiuto più semplice per una ragazza che doveva chiudere un contratto fittizio con il fratello e aprirne uno vero e le problematiche relative al permesso di soggiorno. Qui la situazione interessante per l’antropologo non è tanto l’informazione pratica ma la rete e i discorsi che si creano intorno alla persona e naturalmente il modo in cui sente la persona stessa.
Ma chi ti paga per queste consulenze? E poi, quanto rimane dello sguardo eurocentrico addosso all’antropologo?
Il comune mi finanzia un progetto. Questo si chiama “Com-prendere l’Altro”, ed è finalizzato a una mediazione ed expertise culturale di alto profilo dotata di strumenti antropologici. Gli immigrati certo non investono soldi in queste cose, par contre sono disposti a pagarli per farsi sbrigare da qualcuno servizi essenziali come rilascio del permesso di soggiorno, ricongiungimenti familiari etc. etc. Questo è un vero business per alti immigrati esperti. Quanto alla seconda domanda, ho la presunzione di ritenere che un buon antropologo, come un buon psicoanalista, sia consapevole della sua posizione e del suo “controtransfert culturale”, cioè di quanto di culturalmente orientato vi è nei suoi discorsi e atteggiamenti. Ma l’antropologo è sempre nel mezzo, lo sono anche i suoi interlocutori, quindi ci si incontra in uno spazio di intersecazione complesso, e né l’altro è mai del tutto altro né lo siamo noi per lui/lei.
Metto da parte i miei scetticismi che non esentano tuttavia da un enorme entusiasmo verso queste professione… Per alleggerire ti chiedo: episodi buffi o umanamente belli?
Episodi buffi in sé non ve ne sono. Ma ciò che vi è di interessante è che le persone ti chiedono cose che ti sorprendono sempre. Un signore volontario con il quale ho avviato una collaborazione per gli utenti dello sportello di ascolto da lui seguito mi ha dato una lettera con una testimonianza di fede, che fino a ora ho colpevolmente dimenticato nel cassetto. Una ragazza latina di cui devo ascoltare il caso mi ha intanto passato un catalogo di bijoux e di prodotti cosmetici e propagandato delle ottime medicine naturali contro cancro, Alzheimer diabete etc. etc. chiedendomi se ne avessi bisogno. Io ho fatto mentalmente tutti gli scongiuri possibili e le ho detto che ci penserò su. Loro sono in qualche modo nostri clienti, ci danno da vivere, come succede per l’antropologo in situazioni di ricerca, ma al tempo stesso loro vogliono qualcosa in cambio da noi, anche noi dobbiamo essere loro “clienti”, far guadagnare loro qualcosa. E’ una concezione scambievole della relazione, un dò ut des.
E che percorso hai fatto per diventare antropologa di professione?
Quando sono diventata antropologa io, almeno al sud, non esistevano lauree specialistiche – quelle nemmeno al Nord – né tanto meno Master. Quindi ho iniziato dal percorso di Scienze Politiche. Ho fatto circa tre esami di antropologia e poi la tesi, poiché ho trovato un’accoglienza molto favorevole da parte di quei miei docenti, quasi un caso, come succede in molte cose importanti della vita. Dopo la laurea mi è stato chiesto di fare il Dottorato, sempre a Napoli.
Cosa hai trovato nella tua professione che non aspettavi?
Al di là dei freddi concetti, di una sequela meccanica di domande e risposte e fredda osservazione o strategica manipolazione dei soggetti, molta vita, confronto autentico, sofferto e talora conflittuale, molta avventura, esperienza, sentimenti e letteratura anche, molto affratellamento umano, tantissima incantevole sorprendente scoperta, molte vite parallele, molti bellissimi incontri, profondità spirituali, ricchissimi giacimenti di indimenticabili eventi.
Io trovo bellissimo porre l’Uomo come ambito di ricerca, è forse l’unico che non mi stancherebbe mai, e sentendo le parole di Barbara mi appassiono della passione che mette lei stessa nella sua professione. Chiedo a Barbara: cosa invece pensi che da fuori non ci si immagini, pensando al tuo lavoro?Credo che la maggior parte delle persone, cioè i non antropologi, spesso non capiscano la strada per incontrare l’Altro, quindi direi che ho trovato ciò che loro non si aspettano di trovare e, senza volere fare di tutta l’erba un fascio, in effetti quest’essenza è…. l’Altro.