Controcultura Hippie nell’America degli anni sessanta (parte seconda)
La puntata precedente:
Controcultura Hippie nell’America degli anni sessanta (parte prima)
STUDENTI UNIVERSITARI E READING LETTERARI
La ricerca degli inizi dei Sixties è soltanto un virtuosismo, ovviamente, perché se è vero che la storia delle utopie comunitarie in America è antica, allora l’esercizio più difficile è perdere tempo per capire da cosa origini la controcultura e come si differenzino tra di loro i vari movimenti che hanno animato quegli anni. Comunque, ad un certo punto, le metropoli dell’Est e soprattutto della California diventarono il punto d’incontro dei giovani experienced (così li chiamava Hendrix). Con la loro musica, la loro poesia e i loro costumi, gli Hippie innescarono quel processo di pittoresca codificazione d’istanze più disparate e successivo affrancamento dal reale. Le nuove espressioni di cultura erano il reading letterario e poetico (di futurista memoria); l’happening teatrale come quelli di Tuli Kupferberg (1923-2010) e Ed Sanders, animatori dei Fugs; la comunità errante dei gruppi Bikers, tra i quali gli Hell’s Angels; la comune di artisti; i collettivi artistici d’avanguardia; i gruppi Rock quasi sempre legati alla psichedelica come i Jefferson Airplane o i Big Brother & the Holding Company, ovvero il gruppo di Janis Joplin (1943-1970). Centri di queste attività erano Los Angeles, San Francisco e in parte New York. In questo spazio, pescando dal passato senza per questo raschiare il fondo del barile come per molti sarebbe accaduto nel corso degli anni Settanta, si sperimentarono nuove forme comunicative. Ad esempio, si formarono i Living Theatre di Julian Beck (1925-1985) e sua moglie Judith Malina. Già sulla scena dagli anni quaranta, i due coniugi riuscirono a identificare e talvolta idealizzare il modello di comunità artistica, grazie a nuove forme di provocazione estetica e politica attraverso l’uso della corporeità come fonte di resistenza alla violenza. Erano gli studenti a sventolare con più forza la fiaccola multicolore della libertà e della giustizia, a partire dal movimento studentesco universitario, nato agli inizi degli anni Sessanta dalle ceneri dei gruppi d’opposizione alle attività della House for Un-American Activities Committee. La celeberrima Huac, ovvero la Commissione parlamentare per la repressione delle attività antiamericane che a partire dalla sua fondazione nel 1937 (Richard Nixon era stato suo attivo membro) aveva investigato sulle c.d. attività antiamericane, impedendo a numerosi registi ed attori di lavorare per Hollywood.
Tra i temi delle battaglie portate avanti da gruppi come lo Student for a Democratic Society, non mancava certo la lotta a tutte le forme di povertà e disuguaglianza sociale. Le sedute della Society culminarono nel 1962 con l’accordo sulla Dichiarazione di Port Huron, Michigan, che portò alla ribalta Tom Hayden. Marito di Jane Fonda, Hayden divenne un importante leader del Partito Democratico Americano, nonché apprezzato professore ad Harvard. Tra i tanti contributi pubblicati sulla povertà come condizione di molti US citizens, va citato il volume di Michael Harrington (1928-1989) Other America. Poverty in the United States (1962): un manifesto sull’ipocrisia dell’ideologia dominante tanto per la New Left Americana quanto per numerose comunità Hippie. Non mancarono nemmeno dotti e interminabili sermoni sulla miseria e delusione del sogno americano, ispirati alla Rivoluzione del 1776 o al Continental Congress del 1787 che promulgava la Costituzione Americana. L’esplodere di questi movimenti a partire dal 1964 è ancora una volta un atto di controcultura. La protesta partì dagli studenti di Berkeley, uniti contro il coinvolgimento dell’Università nel complesso militare-industriale americano. La protesta diventò ben presto una lotta contro la decisione del senato accademico di vietare ogni attività politica all’interno del Campus. La costituzione dello Free Speech Movement da parte del carismatico leader Mario Savio (1942-1996) fu il preludio al ricorrente utilizzo dello strumento dell’occupazione. Oppressi da decenni di lotta per la sopravvivenza, operai sostenuti da studenti si organizzarono in gruppi anarchici. In queste occasioni venne dimostrato come l’uso della forza indirizzata allo scioglimento delle manifestazioni pacifiche fosse capace di generare un ciclo perverso che tendeva ad incrementare la violenza. Il massacro presso l’Università del Kent — la Piazza Alimonda degli americani, per intenderci —, in seguito all’annuncio del Presidente Nixon circa l’imminente invasione della Cambogia da parte delle truppe americane impiegate in Vietnam, segnò l’epilogo di questa spirale perversa. Il 4 maggio 1970 per interminabili tredici secondi la Guardia nazionale aprì il fuoco contro gli studenti; sul campo rimasero quattro giovani e sessantuno pallottole ne ferirono altri nove. Un massacro che ricorda la strage di Ludlow del 1914, quando la Guardia nazionale aveva sparato sui minatori scioperanti per disperderli, provocando la morte di venti persone, tra le quali due giovani madri e tredici bambini. Ludlow Massacre è lo splendido omaggio musicale di Guthrie a questo drammatico evento.
FLOWER POWER, HELL’S ANGELS E BLACK’S
L’assassinio di Malcolm X del febbraio 1965 aprì un anno di scontri in piazza. Seguito da quello di Martin Luther King nell’aprile del 1968, questi due eventi hanno forse impedito un possibile incontro tra le istanze dei Black con quelle degli Hippie. Nel corso degli anni seguenti, gli afroamericani — gli Invisibile Men (1952) descritti nel romanzo di Ralph Eleison (1914-1994) — iniziarono il processo di isolamento dalla vita sociale del paese, rinnegando perfino il Peace and Love di King. Da questa dottrina sono nati gruppi violenti come il Black Phanter Party for Self-Defense, impegnato nel sociale ma costantemente in assetto da guerra. La loro popolarità è indissolubilmente legata alla protesta dei velocisti Tommy Smith e John Carlos i quali nel corso della cerimonia di premiazione alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, con la testa bassa alzarono il pugno rinchiuso nel guanto nero di protesta contro il governo americano. Il Black Power, nome attribuito da Stokely Carmichael (1941-98) al movimento nazionalista nero, non agì in opposizione alla cultura Hippie della nonviolenza, semmai, in contrapposizione ai confusi principi pacifisti del Flower Power, di cui mio occuperò in seguito.
Eravamo rimasti al 1963, annata eccezionale per la storia dei Sixties. Alle canzoni di protesta sociale firmate Dylan si sommarono le innumerevoli manifestazioni pubbliche delle minoranze etniche, sociali, religiose e politiche. La nascita del Flower Power, ovvero dei fiori ficcati dentro gli spara lacrimogeni della polizia, esprimeva chiaramente le contraddizioni di quel periodo, ovvero lo scontro interno al movimento Hippie tra nonviolenti e violenti.
Tutto risale agli scontri nel corso della marcia su Oakland organizzata dal Berkeley Vietnam Day Committee per il 10 ottobre 1965, sfociata in rissa a causa dei soliti Hell’s Angels e del gruppo di Kesey. In un articolo apparso sul «Berkeley Barb», in coincidenza della preparazione di una nuova marcia che sarebbe dovuta partire il 20 novembre 1965, riflettendo sull’illegittimità dell’utilizzo di mezzi violenti e l’opportunità del ricorso a simboli mediatici nonviolenti quali i carri allegorici (mutuati dalla tradizione rurale americana) i fiori e la musica collettiva, Ginsberg coniava il fortunato slogan del Flower Power. I figli dei fiori assieme ai motociclisti con i loro leggendari giubbotti di pelle «Perfecto» stile Dean e Brando e i rumorosi «Chopper», immortalati da Dennis Hopper in Easy Rider (1969) — che valse al giovane Jack Nicholson la sua prima candidatura all’Oscar come attore non protagonista e rese ancora più celebre Born to Be Wild (1968) degli Steppenwolf — erano l’espressione della fusione della subalternità della cultura Hippie al passato Beat, pur nella ricerca di nuove forme di visibilità. Ben presto, i ragazzi con le magliette tie-dye prodotte da alcune Comuni californiane e i patchwork pants decisero di spogliarsi completamente (si veda il film Motel Woodstock di Ang Lee del 2009), rivelando il vero mito dell’apparenza alla controcultura, ovvero la nudità che troviamo costruita in Hair, il musical Hippie di Broadway. Quella stessa nudità esaltata da Woodstock, però censurata nella copertina LP di Electic Ladyland dei Jimi Hendrix Experience (1968), raffigurante ben diciannove ragazze completamente nude. Il tema della nudità (ineguagliabile è Orlovski che in mutande legge i Clean Asshole Poems alla Judson Memorial Church), del contatto con la terra e con le radici primordiali ritornerà in altre celebri copertine LP che avrebbero fatto scuola. In Cosmo’s Factory (1970), il quinto LP dei Creedence Clearwater Revival, il richiamo alla disillusione dei Sixties è nell’ambientazione: una vecchia industria abbandonata al 1230 di Fifth Street nei pressi di Berkeley, occupata dai fratelli Fogerty e ribattezzata Cosmo’s Factory che ben ricorda la paludosa Louisiana con le sue terre abitate da emigranti francofoni cajun. L’esaltazione della nudità era anche espressione del desiderio di rivoluzione – essere nudi porta alla rivoluzione, essere scalzi è mero populismo, scriveva John Updike – o semplice esaltazione della bellezza fisica, dell’apparenza in contrapposizione all’essere, come nel caso di Jim Morrison, che più di altri si spinse fino a superare barriere e limiti umani. Con la notissima Light My Fire (The Doors/The Doors, 1967), Morrison faceva un paste and copy dei suoi appunti giovanili su Nietzsche e Baudelaire (presi sul tetto della sua abitazione a Venice Beach, California) per spogliare il Rock dai residui dell’ipocrisia dei Sixties e, attraverso altre forme di percezione (Break On Through), inondarlo di citazioni colte e metafore sessuali rigorosamente condite con tanta, tantissima droga. Il culto di Aldous Huxley (1894-1963), autore di Doors of Perception of Heaven and Hell (1965), avrebbe contaminato Morrison fino alla scelta del nome del famoso gruppo di Venice e, dieci anni più tardi, ispirato la comunicazione subliminale a favore dell’uso delle droghe leggere di Hotel California degli Eagles. Artisti come Santana (Abraxas, 1970), i Grateful Dead di Dark Star (Live/Dead, 1969) o del calibro di Frank Zappa (1940-993) vennero fagocitati dal multicolore mito psichedelico. In Freak Out! (1966) o in Chunga’s Revenge (1970), Zappa non solo mostrava una via del tutto particolare alla musica popolare americana ma anticipava di almeno venti anni la stagione dei ritocchi migliorativi che oggi rendono tanto glamour modelle e veline. Sull’esaltazione più o meno esplicita del psichedelico proliferarono riviste come il «San Francisco Psychedelic Oracle» in edicola dal 1966 al 1968 (il numero del gennaio 1967 è interamente dedicato allo Human Be-In!), il «Berkeley Barb» (con il guru del psichedelico, Timothy Leary, nei panni di Uncle Sam) e il mitico «Rolling Stone» dal novembre 1967 (celeberrima la copertina del numero di novembre 1969 con i Beatles in versione Hippie e la smentita della morte di Paul McCartney). Anche i bozzetti a matita della Marvel Comics ripassati dall’inchiostro di Gil Kane (1926-2000) e gli eroi come Capitan America vennero influenzati dal dilagare della psichedelia. Quando la controcultura abbandonò la psichedelia, fatalmente fu il pubblico stesso a cambiare.
LA PSICHEDELIA
Per comprendere il ruolo indiscusso della psichedelia nella cultura Hippie è necessaria una breve virata agli immediati precedenti storico-culturali, ovvero allo scontro della fine degli anni Cinquanta fra cultura elitaria e di massa. La noia esistenziale dei Beat, il loro continuo vagabondare solitario e sornione, preludio alla ricaduta dentro soggettive miserie inesplorate, non avrebbe più potuto rappresentare una soluzione adeguata alla costante angoscia e disorientamento delle giovani generazioni degli anni Sessanta, prigionieri di quelli che, anticipando Karl Popper (1902-1994), Vance Packard (1914-1996) identificava come i persuasori occulti (Hidden Persuaders, 1957). Quelli capaci di controllare ogni singolo movimento del cittadino attraverso i canali della pubblicità. Per forza, le forme di «autodifesa» collettiva o di classe, come nella tradizione marxista, dovevano prevedere nuovi meccanismi di convivenza, adatti a chi non masticava quel potere di persuasione.
I Jefferson Airplane, mitica band di Frisco, ci hanno fatto un intero LP, Surrealstic Pillow (1967). In seguito, sotto l’influsso della fantascienza di Robert Heinlein (1907-1988), con Blows Against the Empire (1970) Crosby, Garcia e compagni decisero addirittura di modificare il nome in un più psichedelico Jefferson Starship. L’assunzione di sostanze stupefacenti, si direbbe oggi, in un contesto sociale omogeneo sembrava assolvere questa funzione: marcare la distanza dalla società e recuperare il controllo su di sé. Sul viaggio, il viaggio di un bambino sordo, cieco, muto ma Pinball Wizard (ovvero, mago del flipper), i The Who ci costruiranno l’LP Tommy (1969): la più incredibile struttura tematica della storia del Rock. Il nemico, invece, descritto dal sociologo Herbert Marcuse (1898-1979), era l’uomo ad una sola dimensione (One-Dimension Man, 1964): il processo di mimesi, com’era chiamata l’identificazione dell’individuo con la sua società d’appartenenza. Più di un secolo prima, sebbene in un contesto diverso, Oscar Wilde (1854-1900) aveva affermato che la sfida alla legalità e alla moralità alimentava per il cinquanta percento la sua ossessione verso il suo amato Bose. Per gli Hippie, invece, la sfida ai moralismi dell’establishment attraverso l’uso spregiudicato delle droghe agiva da collante e da carburante al movimento, tanto quanto le facce schifate dei perbenisti. Quegli stessi che osteggiarono il mega raduno di Woodstock, per intenderci.
Quindi, il Rock psichedelico praticato massivamente dalle comunità-tribù ispirate dal poeta Gary Snyder fu la migliore risposta alla contaminazione culturale, e il professore di Harvard, Timothy Leary, il suo promotore. Snyder introdusse nel movimento Hippie un’altra contraddizione reale: la negazione di qualsiasi radice storico-culturale come garanzia per l’affermazione della propria identità, ma al tempo stesso teorizzò la chiusura dalla contaminazione dei processi comunicativi, a favore di un ritorno al primato dell’interiorità. La meta impossibile, che non sarà mai raggiunta dal movimento Hippie, era un mondo di confini annullati, come cantavano i The Birds in Fifth Dimension (1966) o gli utopico-fantascientifici Jefferson Airplane in White Rabbit, dove Alice nel paese delle meraviglie è metafora dell’LSD (dichiarata illegale solo dall’ottobre 1966!). La colonna sonora è orecchiabile ma incredibilmente malinconica: la felicità è un sogno impossibile di un’estate che durerà per sempre, cantavano i Beach Boys (All Summer Long, 1964), qualche tempo prima che in American Graffiti (1973) George Lucas descrivesse sul ritmo di Rock Around the Clock la grande nostalgia di Hollywood per questi meravigliosi Sixties. In modo del tutto analogo, Still Nash & Young portarono al successo la loro Woodstock (1970): romantico tributo di Joni Mitchell a quel periodo, in cui descrivevano le comunità degli spettatori ai grandi concerti Hippie e la loro effimera e personalissima ricerca dell’Eden, alla quale venne dedicato addirittura un episodio, The Way to Eden (1969), nella celebre serie televisiva «Star Trek». Lo scetticismo per una svolta che non arrivava mai venne raccontato dal romanzo-rapporto Fear and Loathing in Las Vegas (1969), nel quale Hunter S. Thompson (1937-2005) incastona una serie di truffe — che solo l’assunzione di LSD smaschera come inganno della società borghese — in una rocambolesca fuga nel deserto che unisce Los Angeles e Las Vegas, proprio dove negli anni Trenta Guthrie ci vedeva la «Dust Bowl»: scodella di polvere degli Stati centrali dell’America, dove cresceva il grano, scorreva il petrolio e il contadino s’indebitava. Qualche anno dopo, su quello stesso concetto, il nostro Fabrizio De Andrè (1940-1999) scrisse Suonatore Jones: secondo molti la più bella ballata prodotta dalla canzone italiana nel dopoguerra.
I GRANDI RADUNI E LE MARCE DI PROTESTA
Ad ogni modo, le tribù-comuni degli anni Sessanta, con i loro membri capelloni e barbuti, vestiti con stoffe variopinte o completamente nudi, la promiscuità sessuale e il rituale di amore e pace perpetua, rappresentavano il simbolo di una qualche indefinita forma di fuga. La fuga dal morso del serpente diventò ben presto un Take it (Love it) or leave it e la ricerca di questo eremo di pace si materializzò nella tolkeniana Terra di Mezzo; il riferimento si spinge al celebre romanzo di J.R.R. Tolkien (1892-1973), The Lord of the Ring, assunto (e distribuito in versione non autorizzata) dagli Hippie, tra i quali un giovane Robert Plant, come racconto culto nel quale si affermava vittoriosa l’alleanza suprema per sconfiggere le forze del male. Il punto di rottura era chiaro nella contrapposizione alla guerra del Vietnam, dove l’uomo bianco aveva spedito l’uomo nero a combattere l’uomo giallo per proteggere il paese rubato all’uomo rosso. La conquista dell’America ritornava ad essere quello che era stato secoli prima, ovvero lo sterminio dei nativi americani ad opera di spagnoli ed inglesi.
Psichedelica, quindi, a tutte le ore del giorno e della notte. Con il proclama «Turn on tune in drop out » (accenditi allo spettacolo, sintonizzati con ciò che senti, vattene da tutto per seguirmi sulla difficile strada), Leary inaugurava lo Human Be-In del 1967, un anno prima dell’uscita di quello che molti considerano il capolavoro assoluto della cinematografa moderna: 2001 A Space Odissey (1968) di Stanley Kubrick (1928-1999). 2001 venne interpretato come un (involontario) omaggio alla cultura psichedelica degli anni Sessanta: il monolite nero rappresentava con esplicita forzatura l’anello di congiunzione di tutte le fasi dell’evoluzione umana e la cocciutaggine di Hall 9000 il culmine della capacità di autodistruzione nell’uomo, che si scorgeva anche nelle figure dubbiose degli astronauti Dick, Morrison ed Hendrix. Nel finale, secondo gli Hippie, Kubrick riportava ad una fase prenatale: la luce bianca inondava la stanza da letto dell’anziano astronauta mentre, ancora, quel monolite nero avvertiva l’uomo del suo ineluttabile destino. Si potrebbe dire, in modo semplicistico, ma non errato, che se in 2001 c’è un messaggio, questo è il ritorno alle origini attraverso sia la nudità antropologicamente vestita sia un certo erotismo: la scena iniziale delle scimmie che assumono consapevolezza non è forse una grande orgia primordiale, ripresa senza censura nel mistico Eyes Wide Shut? Non esiste certezza, ma si sospetta che in The Dark Side of the Moon (Pink Floyd, 1973), forse il più bel pezzo per far sesso, come diceva il giornalista inglese Chris Charleswort, Waters e Gilmour pensassero proprio all’Odissea di Kubrick.
Nei Sixties, infatti, tutto sembra ricondurre a una qualche forma di viaggio. Era il caso delle innumerevoli marce di protesta. In questi anni, le marce contro lo stato sociale, ma soprattutto contro la guerra, erano il pezzo forte e più plateale della protesta Hippie; come la marcia della Pace sul Pentagono, nell’ottobre del 1967, raccontata da Norman Mailer in The Armies of the Night (1968) o le marce dei reduci disabili del Vietnam guidate da Ron Kovic, interpretato da Tom Cruise in Born on the Fourth of July (1989) di Oliver Stone, che valse all’ultimo un Oscar alla regia e al primo una chiamata di Kubrick per Eyes Wide Shut (1999). Da queste innumerevoli marce, dalla consapevolezza di una massiccia e costante partecipazione, venne l’idea di trasformare il movimento in istituzione, come direbbe il sociologo Francesco Alberoni. Con ammirevole carambola lessicale lo Youth International Party, diventava un più ovvio e banale Hippie Party, fondato a Chicago nel 1968 da Jerry Rubin (1938-1994) e Abbie Hoffman (1936-1989). Per chi proprio non intende perdersi nulla di questo periodo, le vicende di questi experienced sono raccolte dallo stesso Rubin nel volume anarchico-rivoluzionario Do it! (1970), dove da un’introduzione di un ex Black Panthers come Eldridge Cleaver (1935-1998) si sostenne la tesi della rivolta legittima come affermazione della libera scelta di diversità.
Alle marce di protesta, ben presto si affiancarono i mega concerti. Il primo venne organizzato a Monterey, California, nell’estate del 1967. Tra il 16 il 18 giugno Lou Adler e John Phillips dei Mamas and Papas progettarono il Monterey Pop Festival sul cui palco, dietro suggerimento di Paul McCartney, si esibirono per la prima volta in America i The Who e un certo Jimi Hendrix (che al lancio della monetina contro il gruppo di Pete Townshend ottenne di esibirsi per ultimo) e Otis Redding (1941-1967). Ai circa 200.000 convenuti venne esplicitamente richiesto di vestire quanto più selvaggio possibile. Da ricordare la memorabile partecipazione di Janis Joplin: la Woman Left Lonely, regina della Hippievile di Haight-Ashbury, si esibì in un’ineguagliata interpretazione di Ball and Chain dei Big Mama Thorton’s. Altro evento ad Altamont, sempre in California, il 9 dicembre del 1969, dopo essere passati per Woodstock, che merita una trattazione a parte. I Rolling Stones organizzarono ad Altamont quel mega concerto Rock gratuito, come sigillo della fine del loro tour americano. L’improvviso spostamento della location sulla Altamont Speedway e una serie di sfortunate coincidenze decretarono la fine della stagione dei grandi concerti Rock. Il palco di Altamont doveva accogliere i più grandi gruppi Rock del momento, ma venne montato in fretta e sistemato a ridosso degli spettatori. Durante la performance degli Stones un uomo armato si avvicinò a Jagger. Il servizio di sicurezza era affidato ai temuti Hell’s Angels. Il compenso, si dice, era rappresentato da un assegno di 500 $ in birra, già tutto consumato prima dell’inizio del concerto! In seguito alla morte di quello spettatore, i Grateful Dead si rifiutarono di salire sul palco e questo evento decretò la definitiva spaccatura degli Hell’s Angels (poi prosciolti da ogni accusa) con il mondo pacifico Hippie.
Il teatro di tutti questi eventi era sempre la California, la calda e accogliente California, frontiera naturale dove da tutti gli Stati dell’America giungevano incredibili carovane Hippie sui loro furgoncini VW che ancor oggi vengono usati dai giovani erranti. Era la California che Hendrix sognava quando ascoltava You Don’t Have to Cry e Helplessy Hoping dell’inglese ma trapiantato nella West Coast, David Crosby, texano patito di blues, Stephen Stills e l’Hippie californiano, Graham Nash. I mitici CSN che, salendo sul palco di Woodstock alle tre del mattino, con l’intreccio delle loro voci decretarono una piccola rivoluzione sonora; al punto che nel documentario Woodstock (1970), Michael Wadleigh utilizzò il loro Long Time Gone come brano d’apertura. Ad un certo punto, quindi, divenne consuetudine che le marce si dovessero per forza trasformare in enormi e festosi raduni di protesta, crogiolo happening, canti e danze, come il Gathering of the Tribes del 14 gennaio 1967 (che anticipò quella che poi sarà chiamata la Summer of Love): il celebre Human Be-In presso il Golden Gate Park di San Francisco. Da una parte Leary, professore ormai dimissionario da Harvard, con il suo inno alla conversione psichedelica — the only way out is in —; dall’altra Ginsberg, guru Beat che dopo avere prestato la sua voce ai Fugs, si limitava a cantare un mantra di fronte a 30.000 persone, ma in completo delirio.
Rimanevano le contraddizioni di questo movimento. Se per una parte dei giovani questa fu l’estate dell’amore, per la popolazione nera il 1967 viene ricordato come un anno di intensa protesta e di lutto. Nei riots di Cichago, Brookling, Cleveland, Baltimore, Newark e Detroit morirono almeno 43 protestanti neri.
HIPPIE E LIBERAZIONE SESSUALE
Come sembra ormai evidente, i Sixties hanno sicuramente il merito di avere inaugurato un nuovo concetto di libertà (sviluppato meglio nel corso degli anni Settanta), ovvero una variopinta libertà di espressione sessuale attraverso la performance fisica e la body art. Se il privato doveva essere politico, come dicevano gli Hippie, a maggior ragione la scelta di orientamento sessuale assieme all’esplodere dei Women’s rights da parte di tutte le Women left Lonely, diventarono materia per la rivendicazione sociale e politica. Nel suo libro Revolution for the Hell of It (1968), Debbie Hoffman codifica il diritto di ribellione come appartenente non già all’ideologia del momento, ma alla natura stessa dello spirito dell’uomo al quale John Lennon chiede di dare alla pace una chance. In Trash (1970) di Paul Morrissey, in Italia vietato ai minori di diciotto anni e uscito nel 1974 con il doppiaggio curato da Pier Paolo Pasolini (1922-1975) che ricorre a voci ruvide di doppiatori non professionisti, il riferimento era ad una poesia di Ginsberg (che inizia proprio con la parola trash: immondizia). L’humus culturale dal quale questa pellicola traeva origine è sicuramente la deriva dei costumi di quegli anni (la metafora gira tutta attorno alla figura di un transessuale che decide di arredare il proprio appartamento con i rifiuti trovati frugando nell’immondizia di New York).
Con il Bed-in del 1969, organizzato da John Lennon e Yoko Ono al Queen Elizabeth Hotel di Montreal in Canada, erano proprio i temi della pace e della riflessione verso la liberazione dell’autocoscienza sessuale a legittimare qualsiasi tipo di diversità. Tutto questo si ritrova nella splendida cantilena di Give Peace a Chance; in origine un semplice appunto di Lennon sul retro di una busta. In quest’enorme girandola, anche la donna si ritagliava un suo ruolo e non solo per merito del genio interpretativo di Janis Joplin, ma anche con John Mitchell e molte altre. Già nel 1963, nel suo manifesto femminista, The Femministe Mystique, Betty Friedan anticipava il tema dell’emancipazione della donna. Il movimento gay, invece, si costituiva attraverso i primi scontri con la polizia. Infatti, fu proprio un maldestro tentativo di repressione nei confronti dell’espressione della condizione sessuale ad originare la nascita del movimento gay. L’arresto da parte della polizia di alcuni avventori del locale gay «Stonewall Inn», a New York, in occasione del funerale del mito camp Judy Garland (1922-1966), premio Oscar per la sua interpretazione di Dorothy in The Wizard of Oz (1939), nonché moglie di Vincente e madre di Liza Minnelli, innescò una reazione dalla quale i primi gruppi gay organizzati — i c.d. Friends of Dorothy — inaugurarono la marcia di rivendicazione dell’orgoglio omosessuale, che oggi va sotto il nome di Gay Pride.
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Controcultura Hippie nell’America degli anni sessanta (parte terza)