Controcultura Hippie nell’America degli anni sessanta (parte prima)
«If all the Hippie cut off all their hair. I don’t care, oh I don’t care… I’ve got my own life to live… So let me live my life the way I want to»
(Jimi Hendrix, If Six was Nine,1967)
In piena era Hippie, erano gli anni sessanta, con questo celebre passaggio Jimi Hendrix (1942-1970) affermava la sua appartenenza a quella generazione postbellica. Erano gli anni dei figli dei fiori, «dell’eterno amore degli adolescenti per le prove, le sfide, le droghe; le orge e il dolore di sentirsi fuori dalla società; il rifiuto e al tempo stesso il desiderio di farne parte», scriveva François Truffaut (1932-1984) su «Cahiers du Cinéma».
Nella ballata If Six was Nine di Hendrix e nelle parole di Truffaut c’è tutta la contraddizione di quegli anni: l’esaltazione collettiva per un nuovo stile di vita che avanzava e al tempo stesso il desiderio di liberarsi addirittura da quello stesso mondo. Scriveva Leslie Fiedler (1917-2003) in Love and Death in the American Novel (1960), a proposito degli Stati Uniti, che l’evasione dalla costrizione del rapporto paritario con gli altri, dalla socialità o da una forma repressiva di civiltà, è una variabile costante e ricorrente nel percorso storico degli USA.
L’esplosione del fenomeno ideologico, culturale e sociale degli Hippie nel corso degli anni sessanta ha sicuramente contribuito alla creazione del mito moderno della c.d. controcultura americana.
«Questa macchina uccide i fascisti, i razzisti, i bigotti, i sostenitori della guerra fredda, i generali troppo zelanti, il Ku Klux Klan, i politici corrotti, il clero compiacente»
Per capire questo decennio è necessario penetrare all’interno di quelle contraddizioni della società americana che hanno originato la «cultura della controcultura». È nelle voragini create dal benessere degli anni venti e trenta, nella falsa immagine di società multiculturale del secondo dopoguerra, nel richiamo del comunismo in opposizione al consumismo o nell’imperialismo degli anni Cinquanta che si sviluppa il germe della controcultura Hippie in America. A quel punto, l’incapacità del pensiero americano dominante di dare legittimità sociale a quelle contraddizioni reali che spaccavano il paese in bianchi e neri, ricchi e poveri, Yuppie e operai, ha paradossalmente agito da collettore principale ai movimenti di protesta.
…è come dire che gran parte della musica Rock di protesta la si deve ad un anonimo lustrascarpe!
Per capire il mondo degli Hippie è necessario muoversi all’interno di questo spazio, tra quelli che hanno tradotto quel dissenso in musica, cinema, teatro o letteratura; tra coloro i quali il dissenso l’hanno vissuto senza trasformarlo in moda; assieme a chi ha fatto dei propri strumenti culturali non un mezzo per un’uscita soggettiva da quel mondo, ma mito della comunicazione collettiva.
I punti di riferimento della controcultura postbellica americana sono essenzialmente quattro: la rivolta dei costumi con il Rock’n’roll, la fuga dal presente attraverso l’assunzione collettiva di sostanze allucinogene, la resistenza ad oltranza degli studenti di Berkeley e la comunicazione mass-mediatica inaugurata da Allen Ginsberg.
Il punto di partenza è quell’ autobus nello Stato dell’ Alabama sul quale si sedette dalla parte del torto Rosa Parks (1913-2005): era il 1 dicembre dell’anno 1955.
Il punto d’arrivo è l’odore nauseabondo del vomito maledetto dentro al quale Hendrix affogò nel settembre del 1970.
Le tappe intermedie prevedono i reading poetici Beat a partire dalla fondazione della prima libreria di tascabili City Lights Books di Peter Martin e Lawrence Ferlinghetti; il mito del flower power; Timothy Leary, inarrivabile guru psichedelico; lo Human Be-in del 1967 a San Francisco e, da una strepitosa idea di Michael Lang, il mega raduno di White Lake dell’agosto 1969, che tutti oggi chiamano Woodstock. La materia è complessa e non si presta certo ad una coerente elaborazione storica, quindi lo schema interpretativo adottato sembrerà assomigliare più ad una jam session stile Grateful Dead o ad un riff alla Keith Richards, tanto per intendersi. In fondo, i Sixties erano un’immensa jam session alla quale tutti potevano contribuire liberamente con i propri riffles.
Il punto d’arrivo è l’odore nauseabondo del vomito maledetto dentro al quale Hendrix affogò nel settembre del 1970.
LE ORIGINI
Non deve apparire strano che gran parte dei contenuti di questo movimento fosse ben presente già nella società americana degli anni Venti/Trenta. Due cose erano evidenti al cantautore Woody Guthrie (1912-1967), quando cantava No Depression in Heaven della Carter Family: il sogno americano era annegato da un bel pezzo «Vado dove c’ è depressione / in quella bella terra senza problemi / lascerò questo mondo di fatica e di sofferenza / la mia casa è in cielo / e io vado lassù» e l’America era un cumulo di New Lost City Ramblers. In questi termini, nel 1964 Mike Seeger (1933-2009) e John Cohen descrivevano le c.d «ultime ruote del carro USA». Guthrie, musicista di frontiera e nomade della grande depressione americana, queste cose le aveva imparate da un lustrascarpe nero che gli aveva insegnato a suonare l’armonica. Con l’armonica, Guthrie si guadagnava qualche soldo ai margini delle strade impolverate o nei saloons dell’America degli anni trenta. Per loro stessa ammissione, Chuck Berry, Bob Dylan, ma anche Bruce Springsteen hanno imparato a scrivere e interpretare la musica da questo folk singer di Okema, in Oklahoma. Per inferenza, è come dire che gran parte della musica Rock di protesta la si deve ad un anonimo lustrascarpe! Già negli anni della grande depressione, Guthrie insegnava a tutti che esistevano tante americhe parallele: quella dei neri, quella solita dei lavoratori sottopagati della grande industria, quella dei poveri, degli hobos e dei disoccupati, e lo faceva con una chitarra ed un’armonica, senza armi e tritolo. Il fatto eccezionale che ha reso veramente indimenticabili gli anni Sessanta, risiede nel processo di rapida massificazione di queste vecchie istanze politiche, sociali e culturali, attraverso gli strumenti propri della protesta, come i grandi raduni Hippie, il vagabondaggio, la musica Rock, la letteratura Beat e le sostanze psichedeliche.
A dirla tutta, la (cattiva) memoria popolare ha attribuito agli anni Sessanta peculiarità e meriti che non gli sono mai appartenuti. Ad esempio, se è vero che alcuni grandi eventi di lotta a favore dell’estensione dei diritti civili sono stati organizzati negli anni Sessanta e precisamente in America, la richiesta d’uguaglianza razziale e sessuale ha origini ben più remote, e in Europa, non certo al di là dell’Atlantico. I Sixties sono stati una fucina di idee nel mezzo di una società perlopiù muta di fronte al disagio giovanile. Forse su questo, nel 1972, rifletteva il giovane Mick Jagger quando, assieme ai Rolling Stones, in esilio dalle perfide maglie del fisco di Sua Maestà, nella sua cantina in Costa Azzurra registrava Exile on Main Street.
Ad ogni modo, si era fatto accenno a un punto di partenza. Era dicembre del 1955, ad un anno dalla sentenza della Corte Suprema sulla base della quale le autorità del Kansas erano state costrette ad eliminare la separazione tra bianchi e neri nelle scuole pubbliche. Stanca da un’altra massacrante giornata di lavoro, Rosa Parks veniva multata — una sanzione mai saldata di 10$ — per avere occupato un posto riservato ad un bianco su un autobus nella città di Montgomery, Alabama. I 381 giorni nei quali la comunità nera, sotto la guida spirituale di un giovane Martin Luther King (1929-1968), decideva di boicottare i mezzi pubblici, diventarono il preludio ad un percorso di liberazione razziale che non avrebbe trovato termine nemmeno nel corso degli anni Sessanta. Solo un esempio. Al mega raduno di Woodstock dell’agosto 1969 — a due anni dal famoso discorso di King a Wahsington DC «I have a dream…» — gli Sly & The Family Stone sono l’unico gruppo nero invitato e oltre a Hendrix (che chiuderà il concerto!) i soli neri vagamente ricordati sono Tina Turner e Otis Redding (1941-1967).
«datemi i vostri uomini distrutti, le vostre folle pigiate ansiose di respirare liberamente, i miserabili rifiuti dei vostri prolifici paesi; mandate a me i senzatetto, gli uomini sbattuti dalle tempeste. Io alzo la mia lampada davanti alla Porta d’Oro»
Spingendosi ancora più indietro nel tempo, i Sixties ebbero un prologo illustre anche nelle forme di protesta della fine degli anni novanta del Secolo XIX. Precisamente nel 1886, quando a New York venne inaugurata la Statua della Libertà. Ai suoi piedi una scritta ancora oggi recita «datemi i vostri uomini distrutti, le vostre folle pigiate ansiose di respirare liberamente, i miserabili rifiuti dei vostri prolifici paesi; mandate a me i senzatetto, gli uomini sbattuti dalle tempeste. Io alzo la mia lampada davanti alla Porta d’Oro». Non sembra forse questo un proclama Hippie? Infatti, nel momento della cerimonia inaugurativa, quella Porta d’Oro venne sbarrata proprio a tutti quelli a cui era stata dedicata: i poveri, gli anarchici e molti altri indesiderati. I Sixties sarebbero potuti cominciare in quel momento, ma non andò così.
Da un punto di vista storico, come già detto, il germe della controcultura americana sembra proprio intrinseco nella sua stessa idea di società. Una canzone di propaganda elettorale per l’elezione di Thomas Jefferson (1743-1826) diceva: «Qui stranieri di cento nazioni, costretti dalla tirannia dell’esilio, troveranno tra abbondanti ricchezze, una patria più nobile e felice». Questa previsione si è sicuramente avverata, ma nel segno di una distribuzione diseguale delle ricchezze, che la generazione degli Hippie non tardò a condannare. Se n’era già accorto quello che involontariamente sarebbe diventato il primo vero teorizzatore anarchico della controcultura Hippie. In On the Duty of Civil Disobedience (1849) e Walden (1854) Henry David Thoreau (1817-1862) aveva teorizzato gli strumenti dell’azione diretta e l’obiezione di coscienza ma al contempo l’immersione nella fisicità del corpo e della natura, il rapporto con la terra e con l’acqua.
…la musica dei proletari meridionali venne spogliata della sua carica violenta, per modellarsi sui canoni della ballata consolatoria, rigorosamente della durata massima di tre minuti
GLI HIPPIE E IL TERRITORIO AMERICANO
Il centro di questi raduni spontanei, tanto negli anni Trenta quanto negli anni Sessanta, era lo spazio geometrico tra San Francisco e Los Angeles. Los Angeles è la città che negli anni trenta inventava il blocco totale contro gli immigrati, respinti dalla polizia sulla celeberrima Route 66 (già esaltata nei versi di un giovane Bruce Springsteen), perché privi del Do-Re-Mi, ovvero il denaro, come nella omonima celebre canzone di Guthrie. In questa stessa città, più precisamente nel Campus dell’Università di Berkeley, tra gli anni Cinquanta e Sessanta prendeva forma la contestazione giovanile. Per non lasciare nulla di vago, è bene ricordare che George Berkeley (1685-1753), vescovo di Clone e filosofo antimaterialista, fu uno tra i primi oppositori della scienza newtoniana. Un anarchico, si direbbe oggi, per il quale «essere è percepire o essere percepiti», secondo il quale l’Universo conteneva solo due generi di entità: le idee e gli intelletti. San Francisco, invece, dista solo qualche centinaio di miglia da Los Angeles e da questa è unita grazie alla splendida Pacific Hyghway. «If you’re going to San Francisco, be sure to wear a flower in your hair» cantava Scott McKenzie (1939-2012) al Monterey Pop Festival del 1967, quando Haight District era ancora la meta Hippie per eccellenza, e non un polo d’attrazione turistica com’è diventato ora. San Francisco è anche la terra dei San Francisco 49ers, la mitica franchigia della «National Football League», ma è anche la casa della comune pseudo-Hippie di Charles Manson, responsabile di una serie di omicidi tra i quali quello di Bel Air, dove l’attrice Sharon Tate (1943-1969) venne massacrata. La storia di Manson (condannato a morte, con sentenza commutata in ergastolo nel 1972) è in uno splendido libro di Ed Sanders, The Family. The Story of Charles Manson’s Dune Buggy Attack Battalion (1971). Nei sobborghi di San Francisco venne anche ripresa l’irruzione della natura nel paese della comunità protetta di Bodega Bay. In The Birds (1963), lungometraggio del grande cineasta Alfred Hitchcock (1899-1980), la mancanza di una colonna sonora che Bernard Herrmann (1911-1975) compose con sole grida deformate di gabbiani e corvi, rende inquietante l’assalto degli uccelli, ma sembra pure funzionare come monito per gli uomini a vivere in modo più solidale e fraterno.
nella cultura Beat non c’ era una protesta violenta contro il sistema, ma un rinnovato interesse verso l’indipendenza nei confronti del modello sociale di riferimento
Ad ogni modo, anche gli oppressi al tempo di Kerouak vennero presto trasformati in fenomeni da cartolina. Semplicemente, nella cultura Beat non c’ era una protesta violenta contro il sistema, ma un rinnovato interesse verso l’indipendenza nei confronti del modello sociale di riferimento. Perfino nella sostanza reazionaria dei paladini della Lost Generation Beat si celava lo stereotipo populista, come quando nel suo eterno pellegrinare, Jack Kerouak spesso decideva di omettere la descrizione delle miserie del mondo, concentrato com’era sulla successiva puttana a buon mercato. Analogamente, il credo nonviolento che Joan Baez cantava in We Shall Overcome (1967), ovvero il ripudio della guerra ma nel senso del pacifismo retorico di JFK «Those who make peaceful revolution impossibile will make violent revolution inevitable», il progressivo imborghesimento della società americana e la rapida fuga verso il «personale» della generazione Hippie, erano chiari sintomi di una distanza della protesta dai canoni della violenza. A questi, si unirono quelli che decisero di tacere completamente. Era il caso di Bob Kaufman (1925-1986), vecchio poeta Beat di colore che dalla morte di JFK fino alla fine della guerra del Vietnam (circa dodici anni) non disse più una parola. Comunque, nulla a confronto della performance del guru preferito da Pete Townshend dei The Who, ovvero Meher Baba (1894-1969), che dal 1925 fino alla sua morte rimase in totale silenzio!
con brani come The Lonesome Death of Hattie Caroll e Master of War, anche Bob Dylan pescava dal suo prolifico cilindro i temi che avevano già fatto grande Woody Guthrie
Dal torpore della nonviolenza, invece, con brani come The Lonesome Death of Hattie Caroll e Master of War, anche Bob Dylan pescava dal suo prolifico cilindro i temi che avevano già fatto grande Woody Guthrie, alcune volte copiandone perfino la tecnica (si deve al Guthrie di Hard Travellin’ l’introduzione dell’armonica in accompagnamento alla chitarra). Rompendo con tutte le mediazioni della nonviolenza, il primo Dylan, quello che cantava la protesta senza essere pienamente attivista e che non si era ancora chiuso del tutto in una dimensione intimistica e personale in memoria del suo passato, puntava diritto verso il centro del sistema. E lo faceva per criticarlo, maciullarlo, chiamandosi fuori dall’ideologia dell’americanismo, mettendo quindi in risalto le profonde contraddizioni dell’American Dream. La nostalgia, oggi, è per il ragazzo che parlava a ruota libera (freewheeling significa proprio questo), che sedeva dalla parte del torto e apriva, frantumandole, le finestre. Il novello Walt Whitman (1819-1892) proponeva la fusione di un testo di protesta con la musica, e lo faceva all’interno dei codici del Rock; esperimento che i Beat avevano già provato con il Jazz. A differenza di Whitman che in Song of Myself aveva esaltato la libertà del verso poetico attraverso un liberatorio urlo barbarico yawp «a wop bop aloom op awop bam boom», che Little Richard avrebbe trasformato nel ben più noto «a wop bop a lu bop a wop bam boom» di Tutti Frutti (1955), Dylan era (ferisce l’utilizzo dell’imperfetto!) nel contempo poeta, musicista e attivista defilato, ma interessato alle campagne di protesta degli studenti. Dai celeberrimi Sotterranei kerouachiani del Greenwich Village (il Cafè Wha?, il Gaslight Cafè o il Fish Bar), fortemente influenzato dalle opere di Ginsberg e Borroughs (e dalle decine di bottiglie di vino Thunderbird), per buona parte degli anni Sessanta Dylan rimase suo malgrado (direbbe lui) uno dei simboli del movimento Hippie. Bruciando il repertorio musicale alla Presley, per intenderci, fossilizzato sul pop radiofonico (le Tin Pan Alley Songs, che dovevano il nome al grattacielo di New York dove venivano composte) o sul folk alla Pete Seeger, per intenderci, Dylan ha introdotto una serie di «innovazioni» che erano già state sperimentate da Guthrie (l’armonica alternata alla voce e suonata assieme alla chitarra) e da Chuch Berry (che aveva imposto la chitarra acustica come strumento del Rock, marginalizzando per sempre il piano di Fats Domino, oramai relegato alla sinistra del palco).
1963: LA MUSICA, L’LSD E IL VAGABONDAGGIO
Era l’anno 1963, l’anno dell’assassinio di JFK, e il 28 agosto a Washington DC sulle scalinate del Lincoln Memorial c’erano proprio Joan Baez e Bob Dylan — in attesa di suonare Only a Pawn in Their Game e Blowin’ in the Wind — che ascoltavano Martin Luther King pronunciare il suo famoso discorso. L’anno seguente Dylan avrebbe incontrato John Lennon (1940-1980) all’Hotel Demonico, inaugurando il processo di reciproca contaminazione Dylan/Beatles e iniziando all’uso della marijuana i Fab Four, che fino a quel momento si erano limitati a Scotch liscio e cocaina. Era passato un secolo esatto dalla ratifica della legge a favore dell’emancipazione degli schiavi da parte del presidente Abraham Lincoln. L’anno successivo sarebbe iniziata l’era dell’LSD, grazie ad una serie di pubblicazioni divulgative di un eccentrico professore ad Harward, Tymothy Leary che il Presidente Richard Nixon, ovviamente prima dello scandalo Watergate, indicava come il personaggio più pericoloso in circolazione – e per merito di una idea dei Merry Prankesters di Ken Kesey (1935-2001) che, oltre ad avere scritto One Flew Over the Cuckoo’s Nest (romanzo su come il potere emargini i diversi, tradotto in pellicola da Miloš Forman e vincitore dei quattro Oscar principali alla cerimonia del 1975), ha il merito/demerito di avere lanciato la moda delle comunità viaggianti su coloratissimi autobus. Su Further, un International Harvester School Bus del 1939, nel corso di un pazzesco attraversamento del continente americano dal ranch di Kesey a La Honda fino a quello di Leary a Millbrock Kesey, si inaugurava la moda degli acid test. Tom Wolfe si era già occupato della storia e per questo scrisse The Electric Kool-Aid Acid Test (1968). Anche i Beatles di Magical Mystery Tour dovettero ringraziare il Day-Glo bus di Kesey. I seguaci teatranti di Kesey erano scrittori come Neal Cassady (1926-1968) o gruppi Rock come i Grateful Dead, sui quali vale la pena soffermasi almeno un attimo. Assieme ai Jefferson Airplane/Starship, i Grateful Dead stavano agli Hippie come Elvis stava agli anni Cinquanta! Poco pubblicizzati dai mass media, per tutto il corso della fine degli anni Sessanta quest’incredibile jam band (samurai dell’improvvisazione libera e fluente) ha riempito gli stadi di tutti gli Stati Uniti. Il loro incredibile album Live/Dead (1969) è considerato il manifesto sia della musica psichedelica sia delle comunità viaggianti degli Hippie di San Francisco, nonché uno dei migliori album della musica Rock. Nel corso degli anni ottanta ai Grateful Dead talvolta si unirà perfino Dylan. Accompagnando la musica all’assunzione di sostanze allucinogene, i Dead fecero storia divulgando l’esperienza psichedelica degli acid test, grazie ai quali oggi abbiamo la bellissima Dark Star o Turn On Your Love Light: minuti di vera trance comunitaria in cui Jerry Garcia (1942-1995) & co. riescono a mettere in contatto sinapsi dormienti. Per maggiori informazioni, si rimanda ad Animal House (1978), cult-movie di John Landis che mette in orbita un gigantesco e ineguagliato John Belushi (1949-1982), o a Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni, dove ai Grateful Dead si alterna la psychedelic blues jam band di John Cipollina (1943-1989): quei Quicksilver Messenger Service a cui è concesso il merito di aver tenuto in vita il Bo Diddley (1928-2008) di Who Do You Love? con una suite di 25 minuti nell’album Happy Trails (1969).
la Philips metteva in commercio la prima cassetta audio, l’italianissimo mangiacassette e il sistema Dolby
Se nella famosa Cherokee Strip Land Race del 16 settembre 1893, che aveva assegnato le terre libere ai cowboy americani, le ballate di veglia attorno al fuoco si mischiavano al sudore dei braccianti, la variopinta marcia psichedelica degli Hippie verso la «casa accogliente in cima alla collina», evocata da Jim Morrison (1943-1971) in The Celebration of the Lizard (1967), si limitava a segnare il connubio tra il Rock e il 25° acido (lisergico-dietalminico) sintetizzato nei laboratori della multinazionale svizzera della chimica Sandoz e assunto per la prima volta dal suo scopritore, Albert Hoffman.