Bob Marley, il lato oscuro del Mito – prima parte
She love to party, have a good time
she love to smoke, sometimes shiftin’coke
she’ll be laughin’ where there ain’t no joke,
A pimper’s paradise, that’s all she was
Pimper paradise, that’s all she was now,
Every need got an ego to feed
“Lei ama le feste, divertirsi,
Lei ama fumare, e talvolta anche sniffare coca,
La vedrai ridere, anche quando non ci sono battute scherzose: Un paradiso per papponi, ecco quello che lei è stata
Paradiso per papponi, ecco quello che lei è ora,
Tutte le esigenze hanno un ego da nutrire”
Pimper’s Paradise, di Bob Marley.
Descrive la Giamaica, tempio di edonismo, così come territorio sfruttato, dallo sbarco di Colombo nel 1494 a oggi, da tutti i potenti della Terra, locali compresi.
La frase finale denuncia, con raffinatezza, l’egocentrismo esasperato dei suoi personaggi.
Bob: Marley one
Non ho mai incontrato Robert Nesta Marley, noto come Bob Marley.
Quando ho iniziato a interessarmi del reggae, verso la seconda metà degli anni ’80, Bob era già deceduto, nel 1981, dopo una breve e dolorosa agonia, dovuta alle metastasi di un melanoma, iniziato sotto l’unghia dell’alluce del piede destro. L’ultimo concerto, in Italia, allo stadio San Siro a Milano, 100.000 persone, impazzite: lui suonò con i dolori lancinanti che lo assalivano a tratti, lasciandolo privo di forze dopo la performance. Altri tempi, altri eroi.
La prima volta che ho assistito a un reggae show fu nel 1982; giorni beati, quando il Comune di Roma ancora teneva alla cultura dei suoi amministrati.
E spendeva soldi a tal fine, senza Patti di Stabilità castranti. Allora si esibiva Peter Tosh, un altro dei mitici fondatori della band Wailers, con Bob e Bunny Livingston.
Anche le vecchiette quella notte s’erano messe a ballare, un vero e proprio Gerovital musicale. Ho passato insieme agli artisti del reggae post Marley quindici mesi folli, come fotografo paparazzo, agli inizi del mio soggiorno giamaicano, negli anni ’90. Mollata l’Italia, il lavoro, la fidanzata, dopo il primo viaggio fantozziano come turista, decisi che dovevo fare qualcosa all’estero. E cominciai così: pagato un insulto, mi rifacevo vendendo le loro immagini ai fans, perché loro erano oscenamente spilorci, e ritenevano dovuto il mio omaggio fotografico a compenso dell’onore di concedermi l’accesso al palco e al back stage. Ho imparato, in quei mesi, soprattutto la retorica e l’ipocrisia legata al mondo dorato della musica. Compensate dal fatto che vivevo accanto a celebrità, e avevo accesso gratuito a banchetti e libagioni, oltre alle grazie occasionali delle splendide fanciulle che contornavano l’ambiente, di una bellezza quasi offensiva. Ricordo, tra i tanti divi capricciosi, Dennis Brown, DB, che dopo la morte di Bob e Peter era considerato il numero uno del reggae internazionale; difatti al Sumfest (il raduno globale degli artisti più importanti, in calendario ogni fine di luglio a Montego Bay) era lui che chiudeva la rassegna: due ore di concerto filate che terminavano quando il sole era già sorto da un pezzo. DB mi chiamava “italiano pasta&ceci” perché quando veniva in tournée a Roma degustava con così tanta passione questa leccornia cucinata da una trattoria sotto il carcere di Regina Coeli, da associare in eterno l’Italia a questa memoria culinaria.
Con Ibo e Bunny, i leader dei mitici Third World, ero particolarmente legato, perché facevo da collegamento fotografico con le loro amanti segrete, durante gli itinerari.
Sempre a Roma, li portavo di notte a Piazza San Pietro, dove rimanevano a bocca aperta per cinque minuti esatti, davanti alla Cupola, sebbene i rasta fossero da sempre acerrimi oppositori del Vaticano. Però Bob no, Bob mai visto dal vivo. Uno dei miei rimpianti maggiori.
Quando si dice “quello si è fatto da zero”, quest’espressione mal si adatta a Robert Marley.
Lui viene da sotto zero, a livello polare. Figlio d’un capitano dell’esercito inglese e di una contadina, che, secondo la buona abitudine consolidata dai suoi connazionali, pensa bene di ingravidare, per filarsela subito dopo la nascita del bimbo.
Bob nasce a Nine Miles, un sobborgo di campagna poverissimo sulle colline della provincia di St. Ann. La madre, Cedella Marley, stufa della miseria nera, se lo porta da ragazzino nella metropoli di Kingston, la capitale della Giamaica, dove le country gals (ragazze di campagna) prima o dopo tentano la fortuna. Cedella possiede come beni solo una pentola, che usa per cucinare della zuppa che vende nel ghetto per sopravvivere. L’unica eredità che l’inglese ha lasciato al figlio è la carnagione chiara, che in Giamaica è un vantaggio non indifferente; i colonizzatori difatti, quaggiù come in Africa, hanno creato fin dai tempi della schiavitù una selezione razziale basata sul colore della pelle, iniziata gettando il loro seme nei grembi delle schiave più belle, e generando così una progenie via via sempre meno nera.
Oggi, come allora, in Giamaica, i funzionari che hanno mansioni di controllo presso le banche, gli uffici, i supermercati, sono mulatti o meticci, qua chiamati brownie, marroncini.
E la vendita di prodotti per schiarire la pelle, procedimento conosciuto come bleaching,(dalla parola “bleach”, varechina) è quella che raccoglie i fatturati maggiori nella cosmetica dell’isola, da entrambi i sessi.
TRENCH TOWN
Madre e figlio si stabiliscono nel ghetto di Trench Town, ancora oggi uno dei più miserabili della capitale. Trench Town è un dedalo di vicoli a fondo cieco e cortili, e baracche di lamiera zincata intervallate da costruzioni in nuda muratura come quella dove vivono i Marley. Sono i cortili (“yard” in inglese) il luogo ideale dove si sviluppa il reggae dei geni poveri. Negli yards sono situate anche le cucine comuni, che servono ai ragazzi come sale di prova per accordare voci e strumenti. Trench Town è anche conosciuta con il termine di “Government Yard”. Qui ci si riunisce pure per discutere e tenere consigli di famiglia. Ricavati in seguito ad una legge inglese che imponeva la costruzione di muri per dividere i lotti di terreno uno dall’altro, allo scopo di impedire le fughe durante le retate della polizia, questi spazi diventano invece simbolo della “yard culture” che permette alla povera gente di svolgere attività sociali, quali la musica e la danza. L’appartamento (in verità un loculo, diviso da altri per mezzo di tende) di Cedella e Bob, al n° 19 di Second Street, è al primo piano, dentro un cortile di terra nuda, irta di pietre aguzze, pneumatici che fungono da divisori, latte arrugginite.
L’edificio, del 1938, è fatiscente, le finestre coperte da lastre zincate, l’intonaco marcio che cade a pezzi. Siamo alla seconda metà degli anni ’60. Visito TT negli anni ’90, nel 2005, e anche quest’anno. Nulla cambia a Second Street, malgrado i suoi illustri passati inquilini, e anzi nel 2011 un’ala del caseggiato crolla, uccidendo due persone.
A Trench Town non arriva un dollaro dai ricchissimi eredi di Bob, perché la comunità si è sempre rifiutata di riconoscere Rita Marley, la moglie, come erede esclusiva delle reliquie che appartenevano al marito. La chitarra con la quale Vincent “Tata” Ford ha insegnato i primi rudimenti di musica al ragazzo è ancora gelosamente conservata in una teca quaggiù, insieme al catorcio arrugginito del pulmino con cui i Wailers andavano in tour lungo l’isola.
Nei primi anni ’60, una confraternita di artisti si riunisce ogni sera per suonare. Ci sono musicisti già affermati a livello cittadino, come Jimmy Cliff, Alton Ellis, Ken Booth, e Toots Hibbert, che prendono sotto la loro tutela i giovanissimi Marley e Tosh, e il reggae come fenomeno cosmico muove i primi passi proprio da questi vicoli polverosi e malsani.
Alla fine del decennio gli artisti si affacciano allo scenario internazionale.
Al principio della sua carriera, Bob ha come promoter Lee “Scratch” Perry, un genio musicale a sua volta, ma ombroso e fiesty, cioè fumantino. I litigi tra i due sono la regola, fino al giorno che si prendono a cazzotti di brutto, e il sodalizio finisce. Da allora fino alla sua morte Bob sarà nelle grinfie d’oro di Chris Blackwell, promoter bianco anglo giamaicano, che trasforma tutto quello che tocca nel metallo prezioso, come Re Mida. E’ lui che ha portato al successo i Traffic.
Marley ha già abbracciato la religione Rasta, che venera il fu Imperatore d’Etiopia Hailè Selassiè come la reincarnazione in terra di Dio.
Il successo travolge in un vortice l’artista e il suo gruppo, e il mito dei Wailers invade il Pianeta, dai Caraibi agli Stati Uniti e al Canada, fino al Giappone, l’Africa e l’Europa intera.
In quegli anni avviene anche un altro cambiamento a livello politico interno, che trasformerà i poveri ma relativamente tranquilli quartieri in luoghi infernali.
I due partiti politici che si alternano al timone del Paese dai tempi dell’indipendenza, il PNP (People National Party) e il JLP (Jamaican Labour Party) cominciano nel 1968 ad armare i ghetti di Kingston, per conquistare il potere durante le campagne elettorali, e la città si divide in rioni nemici, che però sono confinanti. Trench Town diventa la comunità leader del PNP e Tivoli Gardens quella del JLP. Nasce così la garrison culture, la subcultura dei presidi politici, che sfocerà nella sanguinosa guerra civile dei primi mesi del 1978. Un migliaio di persone rimangono sul terreno, durante gli scontri a fuoco tra le opposte fazioni. Bob Marley compie uno sforzo storico per pacificare la nazione, dopo che egli stesso scampa per miracolo a un attentato. Il 22 Aprile del 1978, durante il concerto One Love, interrompe lo show, raggiunge il palco delle autorità e trascina sul palcoscenico a forza i due politici, obbligandoli di fronte a diecimila persone circa a stringersi la mano per suggellare la pace. I due, senza guardarsi in faccia, assecondano la sceneggiata, ma almeno il cantante ci ha provato. I disordini si attenuano, eppure il sangue continua a scorrere, fino al 1980, anno in cui JLP vince le elezioni e sale al potere, che durerà fino al 1988. Però questa è un’altra faccenda.
Bob Marley, malgrado il successo internazionale, non diventa mai ricco sfondato.
Questo sarà un privilegio riservato ai suoi eredi. Mantiene fino all’ultimo uno stile di vita semplice: niente auto lussuose, o ville a Miami Beach; quando non è in tournée va in giro con un maglioncino, il berretto di lana dei Rasta, un paio di jeans, e le scarpe da calcio, sport nel quale eccelle e che è la sua seconda passione.
Uno stile di vita diametralmente opposto a quello dei suoi successori. Ne riparleremo.
(foto di Flavio Bacchetta, Bob Marley Foundation and Peter Tosh family)