L’angoscia della pagina bianca
L’angoscia della pagina bianca. Per uno che scriverebbe anche quante volte va in bagno, non precludendosi dettagli rilevanti ma ritenuti inutili poiché troppo naturali (come sbirciare il fazzoletto appena utilizzato oppure gettare uno sguardo nel water poco prima di tirare lo sciacquone) è una delle angosce più grandi. Uno scoglio. Che si trasforma in montagna, in catena montuosa gelida. Provate a scavalcarla, voi, una cosa maestosa così!
Ogni tanto l’angoscia della pagina bianca mi prende, succede quando non riesco a scrivere quello che penso. E il vuoto mi stritola, come una camicia che non ti va più bene. Puoi dare la colpa alla troppa birra, a qualche spritz in più, al poco moto. Ma il risultato non cambia. Che fare? Eppure è solo una stanghetta che lampeggia, in attesa del tuo ticchettare sulla tastiera. Che sia stanco, veloce, ripetitivo, ondoso: poco importa. Spingi sempre più in là, quella stanghetta: è fuori regolamento solo la barra spaziatrice utilizzata per più di due battute e le parole a caso.
Niente. Per due settimane, niente. Ho cambiato posizione, ho cambiato stanza. Dalla scrivania al letto, dalla camera alla cucina. E ritorno.
Niente.
Morale della favola: ho chiuso il computer. Chiuso, non spento. Sono andato a pigliare una penna, di quelle con l’inchiostro fluido, ma così fluido che rischi di trovartelo che ti impiastriccia – irriverente – tutta la tasca dei jeans o, peggio, della giacca. Mi piace scrivere con penne così. A certi piace solo firmare, con penne così, a certi anche disegnare. Basta stare attenti che i dorsi non si attacchino all’inchiostro appena adagiato sulla pagina bianca, di carta questo giro. Lì diventerebbe troppo pericolosa la situazione, qualunque cosa tu abbia scritto, qualunque cosa tu abbia disegnato. Tracce. Tracce dappertutto. Ecco perché abbiamo perso l’uso della penna: abbiamo paura di far carpire a qualcuno la nostra intimità. Preferiamo l’uso di password, di codici, del virtuale che di fisico non ha nulla. Talvolta, nemmeno un’emozione. Eppure la carta stampata, il suo odore, il suo saperti tagliare un dito se non la sai prendere per il verso giusto, ha un fascino inestimabile.
Ma nemmeno tenermi stretto una penna con un foglietto in tasca mentre passeggiavo in lungo e in largo per la città mi ha aiutato. L’angoscia della pagina bianca, tremendamente bianca, continuava a salire. Di giorno e di notte. Inchiodato nel freddo pungente oppure abbracciando un termosifone. Mi sono iniziato a chiedere perché mai è così difficile superare questa paura e mi sono dato una spiegazione psicologica. Sono convinto che la nostra testa sia un’incessante immagazzinatrice di ricordi. Tutto quel che abbiamo vissuto, tutte le nostre esperienze, tutti i nostri amori, tutti i volti che abbiamo incontrato, sono immagazzinati lì. Quel che dobbiamo ricercare, per non avere degli squilibri, è l’ordine. Saremmo così capaci di sapere in ogni momento dove la mente ha riposto lo scatolone con i ricordi della vacanza in Grecia; sapremmo bene dov’è il reparto pieno di esplosivo dei ricordi non ancora metabolizzati e avremmo la capacità di maneggiare con cura mista a vivacità tutte le scartoffie delle varie ed eventuali della mia vita. Un po’ di ordine mentale, ogni tanto, dobbiamo prefiggerci di darlo, se si vuole andare avanti. Forse era questo il mio problema? Le pulizie di primavera si fanno in primavera, non alle porte dell’inverno. Ma se l’angoscia della pagina bianca proveniva proprio da qualche meandro polveroso dentro alla testa? Ho iniziato ad arabattarmi su questo metapensiero.
Poi, in autobus, ho incontrato un bimbo. Aveva l’aria triste. M’è venuto spontaneo regalargli una caramella che avevo nella tasca, prestando attenzione non fosse stata intaccata dall’inchiostro. Mi ha fatto un sorriso così grande, ma così grande che… penso se lo sia portato dietro per tutta la giornata. Di riflesso, ho sorriso anche io. Tutta la nebulosità che c’era prima è scomparsa.
Sono tornato a casa, ho scritto questa frase: “Oggi ho fatto sorridere un bimbo”. E tutto quello che ne veniva dietro.
Forse è proprio vero che dopo la tempesta c’è sempre il sole.