Bolivia Bloqueada (parte 2)
14 dicembre 2011. La marcia ci sorprende in piazza 24 Septiembre, il cuore di Santa Cruz de la Sierra, in una giornata di sole e vento. Ci siamo appena lasciati alle spalle Yapacanì e il suo bloqueo, il puzzo di fumo e la polvere. Abbiamo ancora addosso l’incertezza respirata in quei giorni di scontri. Un’altra protesta no.
La polizia ferma le auto in corsa e raggruppa gli spettatori ai lati della strada mentre il corteo procede costeggiando la piazza. Ci facciamo largo tra la folla e tra i colori vivaci delle bandiere tenute alte verso il cielo di un azzurro intenso spunta lo scenario più improbabile: centinaia di uomini, donne e bambini con bandiere, megafoni e cartelli. Ognuno avanza a modo suo, chi con il girello, chi con le stampelle, chi dando spinte decise alle ruote della carrozzina. Dei furgoni traboccanti di materassi, cibo ed attrezzatura per l’accampamento chiudono le fila. Ci sono bambini spastici, ragazzi poliomelitici, ex operai e minatori semi paralizzati. Molti di loro hanno moglie e figli appresso.
Niente urla, niente fuoco, niente colpi sparati qua e là: loro, i disabili, non hanno scelto di bloccare ma di marciare, nonostante le oggettive difficoltà con cui devono scendere a compromessi. Nonostante le stampelle, le carrozzine e tutto il resto. Hanno deciso che è muovendosi nel rispetto dell’altrui diritto alla mobilità – e mobilitazione – che si costruiscono giorni migliori.
Scatto delle foto e penso che è un caso limite, quello boliviano: in un paese in cui la normale viabilità viene quotidianamente messa a repentaglio dai blocchi e da vergognose deficienze della rete stradale, c’è chi marcia su una sedia a rotelle per difendere la democrazia, per recuperarla.
Un manifestante sta rilasciando un’intervista ad un’emittente locale. Spiega che marciano da una settimana e dalla regione del Beni intendono raggiungere La Paz. Chiedono una pensione dignitosa, in quanto disabili di nascita o invalidi.
“Noi non ci fermiamo” ripete con tono deciso, l’indice alzato in aria, mentre la giornalista prende appunti “perché lo stato ci deve ascoltare”
Afferra il tricolore boliviano adagiato sulle gambe inferme: “questa è la nostra patria, questa è casa nostra”. Come a dire: la Bolivia che conta, quella sana, resiste.
Resiste stoicamente scendendo in piazza. Come ad El Alto nel settembre 2011, quando padri di famiglia del Districto 8 hanno protestato per ottenere una redistribuzione equa dei fondi del programma Bolivia cambia, Evo cumple, dal quale molte famiglie traggono parte del loro sostentamento.
Oppure come a La Paz due mesi dopo, dove anziani e pensionati hanno occupato le strade principali per ottenere un aumento pari a 200 Bs della renta Dignidad, la pensione. Si continuerà nel 2012, con le manifestazioni in difesa del Tipnis (territorio indigeno e parco nazionale Isiboro-Secure) che il governo Morales vuole a tutti i costi violare per costruirci un’autostrada.
C’è chi ha proposto di assegnare il nobel a questi indigeni che danno la vita pur di difendere la loro terra, perché se la costituzione boliviana non riconosce che a parole la sovranità della Pacha Mama, loro intendono affermarla con i fatti.
E di nobel sinceramente ne avrei assegnati molti quel giorno, almeno uno per manifestante. Le affermazioni ipocrite di Morales si frantumavano contro la volontà di ferro di quelle persone, che nella loro disperazione davano una gran lezione di coraggio.
A La Paz settimane dopo ci arriveranno. Verranno accolti dalle squadre di polizia in tenuta antisommossa, dai lacrimogeni e dai cani.