Alexander Payne, la vita è cinema…Il cinema è vita
Un uomo anziano e ingobbito cammina lungo il ciglio di una grande Highway americana. Guarda per terra, convinto nella sua marcia traballante. Una macchina della polizia si ferma proprio dietro di lui e un giovane agente gli si avvicina chiedendogli dove è diretto. L’uomo si ferma, alza lo sguardo intristito dalle rughe e gli risponde: Vado in Nebraska a ritirare il mio premio da un milione di Dollari.
E’ con questa immagine che si apre la nuova pellicola di Alexander Payne, Nebraska (2013), sugli schermi italiani a partire dal prossimo 23 Gennaio. Quest’articolo, mi spiace deludervi, non è una recensione del film, ma piuttosto uno spunto di riflessione su un tipo di film e sulle atmosfere e sensazioni che esso riesce a ricreare. Il tipo di film in questione è quello realizzato con coraggio da registi, o meglio artigiani della macchina da presa, come Alexander Payne.
Nella sua carriera Payne si è dimostrato un pioniere del cinema indipendente americano, sfornando film particolari, profondi, popolati di personaggi che a momenti non sembrano neanche usciti da un film, dato che non presentano caratteristiche incredibili, né vite movimentate e piene di conflitti da risolvere nel corso della vicenda. No… niente di tutto questo… I personaggi di Alexander Payne, malgrado possano apparire noiosi o fuori luogo, sono in prima istanza veri.
I film di Payne non ambiscono a trasformare la vita e le vicende raccontate in belle, buone, giuste o accattivanti da guardare, quanto piuttosto a renderle reali e fedeli all’autenticità del vissuto. Le tematiche affrontate sono sempre molto forti, quasi cronache di fatti che potrebbero essere realmente accaduti a ognuno di noi. Che sia la vecchiaia e l’avvicinarsi della morte di Warren Schmidt (Jack Nicholson) raccontata in A proposito di Schmidt (2002) o l’eutanasia della moglie di Matt King (George Clooney) descritta in Paradiso Amaro (2012), ognuna delle sue vicende affonda come una lama nell’animo dello spettatore, trascinandosi dietro tutto il suo realismo e la sua autenticità, e facendo così vibrare all’unisono ogni corda emotiva che batte dal di dentro.
Uno dei capolavori indiscussi del regista originario di Omaha è Sideways (2004). In questo film si narra la vicenda di Miles, uno scrittore di mezza età ridottosi ad insegnare inglese in quanto non è riuscito ancora a pubblicare nulla. Miles rincontra Jack, un vecchio amico in odore di nozze, e con lui si imbarca in un viaggio “on the road” per la Santa Inez Valley in California, dove Miles ha pianificato un tour enologico d’addio al celibato, essendo il vino una delle sue grandi passioni. Nel corso del viaggio i due celebrano l’ultima settimana di baldoria da celibe di Jack, e fanno i conti con le persone che sono diventati in quel momento della loro vita, con il tempo che se ne va fuggendo dalle loro dita, e con i desideri e le aspirazioni che esso lascia loro. Sia Miles, che Jack, che gli altri personaggi incontrati nel corso del viaggio, sono come figure archetipiche per Alexander Payne. Uomini sconfitti, insoddisfatti, alla continua ricerca di qualcosa di più, che questa sia una relazione clandestina per Jack, o l’affermazione letteraria per Miles. Guardandoli ci accorgiamo di come essi non si comportino come personaggi inventati, scaturiti dall’immaginazione del regista come caratteri, seppur profondi, caricaturali e ideologici. Essi hanno gli stessi comportamenti, modi di fare, luce negli occhi che ritroviamo in ciascuno di noi: esseri umani veri, dotati di respiro fisico e di emozioni fatte di lacrime amare e allegre risate.
Ed è proprio questo, a mio avviso, che le pellicole di Payne vogliono evocare in noi: lacrime amare e allegre risate perché la vita, quella vera e non quella del cinema, in fondo è un po’ così: un composto esplosivo in agrodolce. Payne è ben conscio di questo ed ecco che i suoi film si tingono di toni neri, amari, ma allo stesso tempo anche comici, dolci, delicati, di quelli da farti prima piangere e star male e subito dopo sorridere e riscaldare il cuore.
Lo Schmidt interpretato da Jack Nicholson nel film che ne porta il nome ci riporta indietro tutta la tristezza e la sensazione di abbandono di un uomo ormai alla fine dei suoi anni, salvo poi farci riscoprire che anche lui può trovare nuovi ragioni con le quali aggrapparsi alla vita, come ad esempio la corrispondenza a distanza con un bambino africano. Lo stesso accade al Matt King di George Clooney, immerso nell’ambiente paradisiaco delle isole Hawaii oscurato dall’incidente che ha ridotto la moglie a vivere attaccata ad una macchina respiratoria. Non a caso il titolo del film è Paradiso Amaro e, al di là della pellicola in particolare, questo è il titolo che personalmente darei a tutta l’opera di Payne. Un lungo, tormentato paradiso di gioia e di esperienze vissute mordendo la vita con i denti, macchiato e sporcato con toni scuri e opachi, alle volte di amarezza, oppure di nostalgia o rimpianto.
Anche l’ultimo lavoro, Nebraska, non tradisce questa caratteristica. In un nitido bianco e nero viene rappresentata la storia di Woody, uomo anziano e eccentrico, assolutamente convinto di aver vinto un milione di dollari alla lotteria. Il figlio lo accompagnerà dal Montana al Nebraska, ripercorrendo i luoghi della sua giovinezza, da una parte compatendolo e dall’altra comprendendolo. Woody si muove attraverso la sua vita con un atteggiamento malinconico, quasi incredulo del fatto che la sua intera esistenza gli sia scivolata addosso, senza dargli nemmeno il tempo di accorgersi dell’orologio che batteva le ore, della pelle che si faceva sempre più a grinze, degli anni che si consumavano come fogli di carta dopo essere passati sotto il sudore di centinaia di mani.
Payne, attraverso lo sguardo fiero di Woody, ci restituisce tutta la verità della sua esperienza umana e sociale, tutto il peso dei suoi anni; li trasfigura entrambi in uno specchio diafano che trasuda uno spessore autentico, non artificiale, impastato con la stessa materia complessa e stratificata con cui sono impastate le persone vere, meccanismi del mondo che si estende fuori dallo schermo cinematografico.
Non è un caso che molte delle storie di Payne siano storie di un viaggio, o di più viaggi, attraverso il paesaggio sconfinato dell’America, o attraverso l’esistenza di un uomo. Payne è in grado di cantare l’America, con tutte le sue incongruenze e le sue dinamiche, così come è in grado di entrare e scandagliare l’animo umano con una maestria e una capacità di riflessione ragguardevoli. I protagonisti di Payne sono sempre il più possibile fedeli alle loro reali nature, contorte e troppo vaste per essere banalizzate.
Forse è questo il motivo per cui, quando le luci di sala si riaccendono alla fine di una delle sue proiezioni, il pubblico rimane sempre nel dubbio se quello che ha visto sullo schermo sia solo finzione filmica, o vita reale sapientemente tradotta in immagini.