The Illusionists: Witness the impossible
Trieste. Niente bora e folate grosse solo di emozioni.
Il mare piatto sembrava irreale e il molo davanti a Piazza dell’Unità d’Italia, fiancheggiato da una passerella punteggiata da coppie per mano e bambini a rincorrersi come gabbiani, trasmetteva tranquillità – la stessa sensazione che avevamo provato, poco pirma, nel vedere un ragazzo in bicicletta mentre pedala sotto le palme a ritmo della musica che gli scorre nella testa e nelle vene, mantenuta in circolazione da delle grandi cuffie, a chiudere un berretto pressato sulle tempie, occhiali da sole: un lungomare dal sapore estivo, anche se a novembre inoltrato. Attimi goduti.
Questo quello che vedevamo dalla nostra macchina nel pomeriggio inoltrato, in fila per entrare nella città famosa per quel suo sapore austro-ungarico: sulla sinistra la riviera a picco, sulla destra la distesa adriatica, su cui capeggia il Castello di Miramare, imponente, ma garbato ed elegante. Si inchina mentre costeggiamo il dirupo, fa l’occhiolino a noi che procediamo a passo d’uomo per via degli automobilisti della domenica, a bloccare tutto aiutati dai ciclisti, della domenica.
Avremmo tanto volentieri evitato il ritardo che contraddistingue le grandi occasioni, ma proprio quell’ingorgo del traffico ci separava e allungava le distanze dalla destinazione che muoveva noi, quattro amici e una giornata libera, verso lo spettacolo di magia che da qualche tempo sta facendo esultare i botteghini di tutto il mondo: The Illusionists.
A Mexico City questo show ha racimolato 42.000 visitatori in 8 giorni e al Sidney Opera House i tickets venduti sono stati 31.000, per una programmazione di 9 giorni. Non ci vogliamo lasciar sfuggire l’unica tappa italiana, nell’ultima esibizione della settimana, a Trieste.
Fiato sospeso e sensazioni fanciullesche sono le promesse che il sito e la brochure mettono nella testa di quelli a cui capitano sotto gli occhi, batticuore garantito da artisti dagli stili più disparati – si va dal sosia di Marilyn Manson alle prese con le sue colombe fantasma e i giochetti di filo sottocutanei, all’Inventore pazzo, che con un assistente nano vestito alla Charile Chaplin vuole far divertire ed emozionare i bambini, passando per il Mentalista, che giura di riuscire a prevedere logicamente quanto accade sul palco, al discepolo di Houdini che sfida la gabbia di cristallo riempita d’acqua per districarsi da catene e lucchetti. Il tutto diretto da un eccentrico presentatore saltato fuori direttamente dalle migliori commedie della patinata America anni ’50, e intervallato da un gruppo di ballerini acrobati e maschere.
“Incredible, astounding, amusing, mystifying, perplexing, and challenging – all in all this is a magical, mystery tour de force. Be prepared to be amazed!” – Review: Peter Bleby, Australian Stage
Insomma, grandi aspettative.
Scaricata la tensione a parole sul vecchietto che guida a metà fra le due corsie e che ha creato quell’imbottigliamento in entrata, superati i diversi semafori che ovviamente incontriamo di colore rosso, trovato il parcheggio – soprattutto – e gettate noi ragazze in apri-pista a recuperare i biglietti prenotati, veniamo scortati dagli accompagnatori in una sala dalla platea fitta, di cui riusciamo ad intuire la portata più dai piedi che pestiamo per individuare e raggiungere la nostra postazione, che non dalle luci. Un gioco di prospettive e illuminazioni crea sopra di noi un cielo all’imbrunire, stelle brillanti e nubi gonfie. Colonne ai nostri lati, oro e ricami barocchi. Come non speravamo, siamo però in ritardo rispetto all’inizio dello spettacolo. Ci sta che è l’attesa a dare la cifra dell’evento, passi pure che stavamo compartecipando al clima di suspence che avrebbe contraddistinto le successive due ore al teatro, ma sinceramente quei 15 minuti ‘accademici’ di mancata puntualità hanno roso il fegato. Perdersi l’inizio di una favola vuol dire non riuscire a collocarne i personaggi, non delinearne le caratteristiche e il carattere, arrivare alla loro adolescenza tralasciandone l’infanzia. Rende la storia meno famigliare, i protagonisti meno comprensibili…
Gambe e corpi lanciati come staffe, strutture metalliche che nascondono capriole e ruote di burattini umani sostenuti da fili invisibili, fuochi d’artificio e fumo colorato.
Deglutisco saliva più pesante del solito, poi applausi e qualche meritato minuto di relax concesso dal biondino con la brillantina e le scarpe di vernice, burle e sfottò ad alcuni spettatori dalla complice aria ingenua. Si prosegue con il taglio di Jinger, una Super Woman dentro la cassa di legno – uno dei giochetti più vecchi di sempre ma che comunque, regolarmente, lascia tutti sbalorditi; viene poi il veggente che aveva previsto numero, simbolo e parola del dizionario trovati da ignari collaboratori scelti dal pubblico secondo l’infallibile tecnica del cecchinaggio con palla da tennis… e, giusto prima della pausa, il grande numero, quello per cui questo show è famoso: la riproposizione del tentativo Houdiniano di liberarsi dalla morsa di cinte di metallo e chiusure, da parte di un ragazzo – l’unico italiano del cast altrimenti tutto americano – sommerso e a testa in già dentro una gabbia d’acqua.
Più di tre minuti di completo sospiro mozzato; in sala i battiti sembrano sincronizzati rispetto al cronometro del maxi-schermo, addirittura si sentono i rumori della forcina per capelli a svirgolare i lucchetti. Si spera che andrà a finire bene, si sa che andrà a finire bene, deve finire bene – ma non se ne è mai certi fino in fondo.
Per la cronaca, com’è ovvio, praticamente tutti gli spettatori hanno cercato di equiparare l’escapologo nella tenuta in apnea: di questi, il 91% ha ammesso di non poter concorrere, fermandosi al 1′ minuto; il 6% ha ostentato una falsissima faccia a palloncino fino alla fine della performance, simulando di aver fronteggiato bene il mago; il 3% sta ancora trattenendo il respiro. Auguri!
Comunque sì, ce la fa, con immensa gioia di noi, inebetiti dalla mancanza di ossigeno per la prova d’abilità, e dei bambini che avevano gridato di spavento quando l’artista aveva perso la prima forcina sul fondo. Contenti tutti, insomma.
Qualche capello bianco in più e tanti sorrisi beffardi e saccenti accolgono l’intervallo, che slitta tra una barretta al cioccolato e un tè al limone.
Ammetto che non ricordo tutti i trucchi proposti nella seconda metà dello spettacolo. Il filtraggio dalle emozioni è prevedibile, comprensibile, e immancabile.
La mia mente ha salvato però il giochetto dell’uovo che passa dal sacchetto alla tasca del presentatore, assistito da una formosa e biondissima… bionda mula triestina, e la comparsa, moltiplicazione, scomparsa, di fazzoletti trasformati in colombine grazie alla prestigiribiridigizzzazione di Manson2. Per fortuna ha mostrato un po’ di umanità e tatto, mi stava antipatico dopo quel numero fisicamente insostenibile della serie “Non provateci a casa”. Soffia sul fazzoletto, ecco una colomba, fischia la trombetta, toh’ un altro uccellino, lo prende, lo gira, lo mette in gabbia e scompare, se lo riprende da dietro la schiena, oh ma son due!, li rimette in gabbia, copre la gabbia, scopre la gabbia, non ci son più colombi, mette il telo, risolleva il telo, sono quattro e woosh, schiocco di dita e sparisce tutto l’ambaradan. Ma lui ritrova i punti persi in partenza…
E su questa falsa riga, emotivamente parlando, un momento di una dolcezza incredibile: quel grassotto di bianco vestito di un inventore si è fatto aiutare da Marta, una graziosa piccola donna di quattro anni e mezzo, per far volare un origami, che prima era la sagoma di carta di un ometto che camminava, per finire trasformato in una rosa vera. Tocchi leggeri, dita che si muovono a mimare una melodia, concentrazione, desiderio, speranze. Questa sì che è magia pura, magistrale tiraggio delle corde più emotive anche degli adulti, noi finti-orsi del pubblico. E la possibilità, per una bambina, di sentirsi dotata di poteri sovrumani nel dare movimento e poi vita ad un pezzo di carta. Forse un po’ tutti noi avremmo sperato di essere scelti, una volta tanto, come quella testolina che sbucava da una fila qualsiasi. Ahhh…!
Qualche altro trucco, anche se la mia mente ne ricorda pochi, saltando ai fiocchi di neve sparati ovunque, sul finire dello show, per glassare e glissare performances che mi hanno mantenuta zitta per un tempo ben superiore alla media. Aspettiamo che tutti abbiano lasciato le proprie poltroncine, non vale la pena d’accalcarsi all’uscita; assaporiamo ancora e fino in fondo le scenografie, le pareti, le luci.
Rimasti praticamente solo noi, decidiamo di uscire, e ci troviamo faccia a faccia con tutti gli artisti e cabarettisti, che aspettano fuori, magicamente già spostatisi all’atrio, per salutare il pubblico. Autografi, foto di rito, strette di mano e sorrisi: alcuni di circostanza, altri di emozione sincera.
Ci avviamo al parcheggio, satolli euforici e soddisfatti. Ad avere a che fare con la magia, sembra sempre di poter camminare sollevati da terra, dopo il contatto con gli artisti.
Riprendiamo l’auto, costeggiamo Piazza Unità d’Italia, lasciamo che i piccoli neon blu posizionati sul fondo della stessa vadano a colpire i vetri e la nostra perplessità rispetto alla loro collocazione… e facendoci domande sul senso di tale illuminazione, che di molto s’allontana dalla grazia e dalla maestosa compostezza degli edifici politici di fine ‘800 che ne delimitano i lati.
Nel tragitto verso casa, verso il mondo di chi non ha poteri spettacolari, mi addormento, guardando fuori dal finestrino il mare nel buio.