Bolivia Bloqueada (parte 1)
Si stenta a trovarla nella carta geografica, ma ogni boliviano saprebbe sicuramente cosa dire di lei. E questo non di certo per il Parco Nazionale che le sorge accanto o il Rio da cui prende il nome, quanto perché Yapacanì ha il potere di decidere la buona o cattiva sorte di gran parte della Bolivia. Situata a 100 km da Santa Cruz de la Sierra, è attraversata da un’arteria che collega il Sud-Est del Paese all’altopiano. Questa strada attraversa il Rio Yapacanì in prossimità di un ponte che, se bloccato, può mettere a repentaglio la mobilità di gran parte del Paese. Ci hanno provato diverse volte, riuscendo a paralizzare per giorni e giorni i trasporti. Li chiamano bloqueos. Nel 2011 in Bolivia se ne sono realizzati almeno 100.
19 novembre 2011. I cittadini di Yapacanì decidono che David Carvajal, sindaco incompetente e corrotto, se ne debba andare. Si sono diffuse voci secondo le quali in più di un anno di mandato abbia sperperato il 40% del denaro pubblico in spese personali. Per ottenerne le dimissioni, si decide di bloccare temporaneamente il ponte d’entrata e d’uscita al comune. Il sindaco fugge a Santa Cruz mentre i bloqueisti irrompono nel municipio, bruciano i documenti e murano la porta d’ingresso. Obra de impacto ci scrivono su, ‘opera d’impatto’.
Nei giorni seguenti gli scontri tra sostenitori e oppositori di Carvajal si intensificano a tal punto da costringere le autorità ad intervenire. I poliziotti sparano sui manifestanti per disperderli, ma questi, armati di sole pietre, riescono a confinare la polizia nel suo quartier generale e a farla fuggire. Senza polizia né sindaco, a Yapacanì è anarchia.
Emergono nel frattempo i disagi causati dal bloqueo: l’immondizia si accumula agli angoli delle strade dove viene impietosamente bruciata, i camionisti sono costretti a passare giorni interi sull’asfalto rovente, i beni di prima necessità scarseggiano. Quasi ogni giorno è concessa una sola ora di libero passaggio, il cosiddetto Cuarto intermedio, che permette tra l’altro ai mototaxi di transitare le persone da una parte all’altra del ponte. E per delle cifre esorbitanti.
E’ a questo punto che tentiamo di entrare a Yapacanì. Per 40 Bolivianos un taxi collettivo ci porta da Santa Cruz a Santa Fe, dove gli ultimi camion si aggiungono alla fila. Le auto provano ad infiltrarsi tra i container, ma la maggior parte di esse si rassegna a fare marcia indietro. Il nostro autista tenta una strada alternativa. Contando sulla sua massiccia 4×4 si avventura per un sentiero di fango che, addentrandosi nei campi, si ricongiunge alla via principale in prossimità del ponte, evitando così l’intasamento.
Procediamo a passo d’uomo, a causa dei sassi disseminati lungo il percorso, e arriviamo al ponte mezz’ora dopo, tra i sobbalzi. Da qui inizia la nostra traversata a piedi tra i camion e le moto che ci sfrecciano a pochi centimetri di distanza. Ne fermiamo una, ma solo dopo una contrattazione agguerrita ci rassegniamo a pagare una cifra spropositata. In tre su una moto, con gli zaini in spalla, e ben saldi l’uno all’altro, ci lanciamo tra la polvere e il gas dei tubi di scappamento facendo a zig zag tra gli autocarri, rischiando diverse volte di finire a terra a causa della guida spericolata del nostro autista.
Riusciamo comunque ad arrivare a Yapacanì, dove lo scenario che ci si presenta conferma quanto appreso dai giornali: sporcizia ovunque, camionisti accampati alla bene e meglio sotto il proprio camion, chi steso su un’amaca, chi su una stuoia a masticar coca, roghi in prossimità degli accessi al ponte. Il senso di abbandono suscitato dall’assenza delle istituzioni è palpabile.
Solo alcuni giorni dopo Evo Morales deciderà di pronunciarsi in merito, e in un discorso tenuto a Tiquipaya affermerà che il blocco di Yapacanì è un vero e proprio golpe de estado en la Alcaldìa, un colpo di stato municipale. E non potendo ignorare il suo passato di sindacalista (il presidente è tuttora leader di 7 sindacati di produttori di coca), e di bloqueista, aggiunge: “Prima le marce e i blocchi erano mezzi utilizzati per difendere la democrazia, per recuperare la democrazia”. Ora, a suo dire, non più. Sta di fatto che solo a due settimane dall’inizio dei disordini c’è qualche segnale di apertura al dialogo. E il bloqueo viene sciolto.
Mentre questo accade, nel resto del Paese le compagnie di trasporti cancellano tutte le corse, creando non pochi disagi ai passeggeri. Qualcuna si arrischia a far percorrere ai propri mezzi strade alternative, facendo pagare a peso d’oro il biglietto e riempiendo gli autobus all’inverosimile (gli ultimi arrivati sostano in piedi nei corridoi). Si percorrono strade sterrate, sprovviste di transenne o di illuminazione (in Bolivia le strade corrono tra i monti o nella foresta). Costellate di inquietanti bandierine rosse a segnalare la presenza di un masso franato dalle pendici del monte o un tratto del sentiero reso impraticabile dai cedimenti del terreno.
Ci è capitato a Sucre, dove abbiamo viaggiato 15 ore in queste condizioni (sia ben chiaro, nel corridoio centrale). Di notte. Senza soste. L’autista, che non aveva sostituti, si teneva sveglio succhiando le foglie di coca che ammucchiava in un lato della guancia a creare il famigerato bolo. E di nuovo niente istituzioni, niente controlli, nessun limite tra il lecito e l’illecito. Tutto sta all’intraprendenza personale, e alla buona stella di ognuno.
E’ in questa situazione di incertezza che riusciamo a raggiungere Santa Cruz, dove ad accoglierci c’è uno scenario ben diverso… (fine prima parte)