La memoria riconoscente
L’aula appare svogliata mentre il deputato Benito Barbanelli sta parlando. Lo fa a braccio, senza fogli. Ha un abbigliamento sportivo, giacca di velluto blu, una camicia a quadrettini beige con la cravatta di maglia sempre blu, il tutto su pantaloni grigi. Non gesticola molto, anzi parla composto, badando di non allontanarsi dal microfono. Una seduta di quelle che non finiscono mai, con beneficio della bouvette. E lì, davanti a un paio di caffè a prezzo stracciato come si conviene a chi è lì per servire la patria, i colleghi onorevoli Basetti e Gargiulo stanno commentando proprio l’intervento che non stanno ascoltando. Gargiulo, un alleato di maggioranza di Barbanelli, scuote la testa e dice: “Lo sai come è Benito, quando ci sono questi temi non resiste …”. “Va bene” – replica Basetti, che occupa i banchi dell’opposizione – “però ci vuole un po’ di garbo, un po’ di coscienza. La sua è una orma di incontinenza mentale. Gli ci vorrebbe il pannolone al cervello”.
All’interno Barbanelli prosegue. Ha solo dieci minuti di tempo, ma vuole infilarci di tutto. Il tema è allettante: <Commenti sull’ultimo arresto di brigatisti, dopo le comunicazioni del ministro degli interni>. Ha una bella voce, anche impostata, un po’ recitante. Ricorda l’Italia degli anni di piombo, che lui conosce bene, parla dei compagni che sbagliarono, parla della necessità, che allora sentivano anche i borghesi, di un cambiamento, se non rivoluzionario, almeno radicale. Il contenuto oscilla tra il sociale e il mistico. Il presidente dal suo scranno gli lancia ogni tanto un’occhiata al di sopra degli occhialini strettissimi da presbite. Lo guarda come se non lo vedesse. Barbanelli prosegue e si infila nel tunnel di definizioni di libertà: “Non è poi così vero che la libertà finisca dove comincia quella altrui. La libertà talora ha bisogno di spazi più ampi, quasi infiniti se in gioco non c’è il singolo ma un sistema complesso di relazioni, una società che vuole ritrovare i motivi della propria esistenza e soprattutto una prospettiva. La libertà si fa collettiva e non solo, e non tanto, individuale…”. Il vecchio tema delle avanguardie è duro a morire. Ma poi aggiunge che c’è un tempo per tutto, cita perfino l’Ecclesiaste. Dice che oggi è la stagione del rispetto, delle regole democratiche. Ma anche della democrazia dal basso, dei comitati, dei movimenti, dei centri sociali, dei giovani, dei gay, delle donne, di tutti coloro che cercano uno spazio rispettoso delle differenze, senza omologazioni. Le differenze che poi sono le identità, il modo per salvarsi dalla globalizzazione che tutto divora, un modo per garantire che prevalga l’essere e non l’avere.
Arriva alla conclusione: “Ecco perché non posso che condannare questi ultimi epigoni della lotta armata. In loro l’analisi è sostituita dalla nostalgia. L’anacronismo cerca di trasformarsi in elitarismo. Lasciatemi dire: il tempo del fucile, se mai ci fu, non c’è più”. Si siede. Qualche timido applauso che muore subito nel silenzio. E’ un po’ accaldato Barbanelli. Un suo compagno di partito, che gli siede accanto, gli stringe la mano: “Bel discorso. Si sentiva la passione”. “Grazie” – risponde Barbanelli – “Capisci: è stato duro anche per me dire quelle cose. Perché, sai, devo tanto al mio periodo di latitanza da brigatista…”