Cronache alcoliche
È successo a tutti, almeno una volta nella vita, di fare o ricevere le seguenti domande:
Tipo Friendly: “Stasera usciamo per una birretta al pub?” o Casereccio: “Stasera tutti a cena da me, portate un vino decente, NO Tavernello!”, 4EverYoung: “Ma stasera in disco, dopo quaranta euro di biglietto, la consumazione è inclusa? Posso almeno appendere il cappotto?” o più Clochard: “Ooh, andiamo al Minimarket indio/serbo/magrebino a prenderci una cassa di birre?”.
Quattro scuole di pensiero, quattro diversi tipi di serata, ma cos’hanno in comune? Un composto organico originato da un gruppo ossidrilico legato a un radicale alchilico. L’Alcol. Che tu lo voglia o no, quando organizzi una serata, c’è sempre da considerare il Dio Bacco. E il suo avatar sulla terra: la scimmia.
In diverse culture la scimmia è legata all’idea della perdita del controllo su sé stessi. In particolare nel caso dell’alcolismo, che veniva un tempo considerato il peggiore e il più vergognoso dei vizi. L’abitudine al bere era molto diffusa e altrettanto vituperata, e forse per questo la fantasia popolare preferì vedere il bevitore come la vittima di una scimmia che gli stava appollaiata sulla spalla e lo pressava con il proprio bisogno d’alcol. Se l’ospite rifiutava di soddisfarlo, la scimmia si vendicava facendolo star male.
La mia scimmia si chiama Alfred, e ne abbiamo passate tante insieme.
La conobbi a sedici anni, si presentò durante l’inizio della fase di ribellione adolescenziale, con uno smoking, un sigaro e una piccola spilletta gialla a forma di banana.
Quella notte mi offrì una mezza bottiglia di Gin e, tralasciando i dettagli che per ovvi motivi non ricordo, posso solo dirvi che ancora oggi sono restio a bere quell’erbaceo intruglio.
Ed è così per molti, è sempre nell’aria la promessa di non toccare mai più il tipo di veleno che ci ha regalato la prima sbronza, che sia esso Gin, Vodka o Sambuca.
Ogni scimmia ha una sua personalità e dei gusti ben precisi.
Ci sono scimmie esigenti, quelle che sulla pizza vogliono la birra, sulla carne il vino rosso, sul pesce il vino bianco, sul dolce lo spumantino e sul caffè l’ammazza caffè.
Alfred, da questo punto di vista, non è poi così viziato: oscilla tra il “preferisco questa birra” e il “mescola tre cose insieme, basta che non esplodano“.
Ma alle volte sa essere molto puntiglioso e problematico. Non ci sono bevande che davvero detesta, ha piuttosto dei vizi sulle modalità di somministrazione, trasformati in teorie.
Tra i suoi più grandi nemici ci sono le cannucce e i bicchieri di vetro.
Poco tempo fa andammo in un locale, a Roma, io, Alfred e alcuni amici. Stavamo ordinando da bere e gli domandai:
“Sa, mi sono sempre chiesto, come mai lei odia le cannucce, Alfred?“. Sì, sì, ci diamo del Lei…
Il mio caro amico, senza la minima esitazione e con il suo impeccabile aplomb inglese, sistemò la spilletta sulla sua piccola giacca color fumo di Londra, e mi rispose.
Vede, mio caro, la loro conformazione stretta e cunicolare impedisce di bere la quantità di liquido desiderata, vincolando il soggetto a sottostare al sorso prestabilito dalla cannuccia. Come può notare, infatti, in molti locali cercano grossolanamente di porvi rimedio con l’aggiunta di una seconda cannuccia. A mio parere questo è come cercare la soluzione a un problema raddoppiando la fonte del problema stesso. È come aggiustare una marmitta ingolfata, non riparandola, ma installando una seconda marmitta ingolfata. Inconcepibile!”.
Ci fu qualche secondo di silenzio mentre toglievo le due cannucce colorate dal bicchiere.
“Uhm… capisco… E i bicchieri di vetro? Come può lei preferire la plastica? Lo sanno tutti che le bevande in vetro sono più buone!”
Chiesi ingenuamente, non essendo neanche sicuro di voler sentire la risposta.
Ed egli non rispose subito, ma scese dalla mia spalla destra per andare al bagno.
Mi intrattenni con futili chiacchiere tra amici, fissando amaramente quel pesante bicchiere di vetro davanti a me.
Quando tornò a sedersi, il buon Alfred mi scrutò e alzò un sopracciglio.
“Che ne pensa di uscire fuori per fumare una sigaretta?” mi chiese cordialmente.
“Aspetti, finisco di ber…”
“Cosa ne pensa allora di fare una passeggiata sorseggiando il suo drink, o di cambiare locale?” incalzò.
E lì capii cosa stava cercando di dirmi quella psicolabile scimmia che, grattandosi la natica destra, aggiunse:
“Bere in vetro mi vincola a quel pub, a quel luogo e, alle volte, a quella sedia. E anche se non c’è nulla di male, è mia personale opinione che il termine uscire diventi improprio quando lo si utilizza entrando in un locale, passandoci l’intera serata. Potrebbe anche capitare che io passi piacevolmente più di un’ora in uno stesso luogo, al chiuso, ma se bevo in plastica ho una scelta, in vetro no. Devo sottostare alle sue regole”.
Ero interdetto, non sapevo se dovevo mandarlo in analisi o considerare la cosa un suo incontestabile capriccio.
Nel seguito della conversazione lo accusai di essere un po’ troppo viziato su queste cose.
In tutta risposta, con la calma e la consapevolezza di un maestro tibetano, egli pose fine alle mie velate accuse con una domanda, che ho il piacere di girare a voi.
“Caro amico” disse spostandosi sulla mia spalla sinistra, “ma essendo l’alcol un vizio, è forse sbagliato essere viziati sul vizio?”
“Uno spunto di riflessione profondo!”, avranno sicuramente pensato le noccioline che accompagnarono quel drink. Un Vodka Lemon, per la precisione, che finii di bere in un lungo e confortante… bicchiere di plastica trasparente.