L’angelo dalla faccia sporca
Ogni tarda sera un pebete giaceva solitario sul bancone, testimone di discussioni su calcio, politica, donne e di ubriachi addormentati oppure litigiosi. Anche se si era ormai sgonfiato e rinsecchito, non era certamente un panino da buttare, né era reduce da una lunga giornata nella quale il suo compratore non era mai arrivato. Perché c’era chi, mentre trascorreva lunghe giornate ad aprire e chiudere le porte dei taxi sull’affollatissimo corso Corrientes, sognava di assaporarlo sin dall’alba, ignorando se quella crosta tostata fosse stata, un tempo, brillante; e ignorando anche se il prosciutto cotto avesse mai avuto la tipica fragranza di una fetta appena tagliata. Forse non l’aveva mai degustato nel suo stato di massima freschezza ma, ciononostante, riusciva a immaginarne il gusto.
Lui era uno di quei bambini delle villas, figlio di un uomo tanto incerto quanto assente, che ogni tanto tornava alla baracca per rammentare alla moglie quanto fosse forte e al figlio quanto non gli fosse padre. A sette anni di età si sentiva ormai sufficientemente grande per andare a “pescare” degli spiccioli in città, consapevole del fatto che la strada gli avrebbe fornito più di quanto avrebbe potuto mai aspettarsi dalla scuola. Il suo grembiule bianco, coprendo rigorosamente chissà quale straccio che doveva vestire, ispirava nei passanti la tenerezza di un bimbo oramai scomparso da ogni corsa e da ogni nascondino di un cortile scolastico.
Si fermava al Cafetín dopo le dieci di sera. Esausto. Come ci si può sentire dopo un’intera giornata trascorsa in giro. Ricordo di lui i pantaloni un po’ caduti, appesantiti dalle tasche piene di monetine, il tessuto bianco del grembiule annerito dal fumo delle macchine e i capelli duri e spettinati. Qualche sera riusciva a ricevere le rimanenze del fiorista che cercava poi di rivendere alle coppie di nottambuli che passeggiavano lungo Corrientes. Intanto l’immensa fame dietro ai suoi occhi imploranti, spingeva il padrone, Don Osvaldo, ad esser celere nella consegna del prezioso panino-premio. Si sedeva poi sul primo tavolo davanti al bancone, lo afferrava e prima di provare a coprirne l’intera superficie con un solo morso, in realtà con lo sguardo l’aveva già divorato. E inghiottiva quel pane che non si mescolava esclusivamente con il prosciutto e il formaggio, ma ora anche con i muchi che si trascinavano dietro la polvere nera raccolta per la strada e che gli copriva la faccia. Quanta gratitudine si percepiva in lui!
Vari decenni sono passati, e adesso che non so più nulla di lui provo una grande nostalgia per quei tempi. Come sarà stata la sua vita prima ch’io lo conoscessi e dopo la sua sparizione? Ho dovuto rassegnarmi e accettare che noi, il Cafetín, siamo stati appena una tappa nel suo percorso. Ho sognato di ritrovarlo per strada, da uomo adulto, magari padre laborioso e responsabile. Ma forse non è andata così se è vero che, una domenica pomeriggio, giocando con un aquilone in una discarica, come se fosse stato un angelo volò finalmente in cerca del cielo…
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“…y herida por un sable sin remaches, ves llorar la biblia contra el calefón…” L’immagine di una Bibbia che pende da un gancio accanto allo scaldabagno non è affatto una fantasia dell’autore e nemmeno una metafora: la mancanza di carta igienica portò due mondi lontani a stare uno accanto all’altro.