Bomboclàt (seconda parte)
Sav: Bomboclàt at day
Arriviamo a Sav dopo un viaggio allucinante, penetrando l’isola come un coltello nel burro… 120 km orari di media, malgrado anti-strade con buche grosse come i crateri della Luna e alberi che ci sferzano in faccia, invadendo la carreggiata; dalla città, passando per i ghetti di Downtown Kingston, percorriamo Spanish Town, l’antica capitale della Giamaica, scaliamo le irte montagne che costeggiano Mandeville, dove il bus strapieno rischia di collassare più volte, bucando due gomme una dietro l’altra, con soste forzate di circa un’ora per ciascuna… nella galleria della Bamboo Avenue, dopo Santa Cruz, rischiamo di perdere quel poco di ragione rimasta, visto che le chiome minacciose dei bamboo cinesi, trapiantati quaggiù secoli fa, ci sfiorano le teste, e di notte sembrano anaconde che frustano con la coda… siamo rannicchiati verso il fondo del mezzo, un po’ perché facciamo schifo, ma anche per la fifa blu… 7 ore e ½ di tragitto, arriviamo verso le 8 del mattino, eccoci nel capoluogo di provincia del Westmoreland, Savanna-La-Mar. Nel 1800 era il porto più importante dell’Atlantico, riguardo tratta degli schiavi e il commercio della canna da zucchero, i cui campi sterminati ancora oggi circondano la città e i sobborghi.
Un serpentone centrale, Great George Street, circondato da viuzze e vicoletti ciechi, trapassa da parte a parte il centro, dalla stazione dei bus fino a sbucare sul mercato del pesce che sbocca sul mare. E’ Africa piena, la gente invade lo stradone, facendo la gimkana tra auto e carretti a cavallo, per la quasi totale assenza di marciapiedi. Fogne a cielo aperto, cumuli di monnezza dappertutto, che si alternano a bottegucce e mercatini, completano il quadro; se non fosse per le macchine, potremmo essere tranquillamente nel XIX secolo, niente sembra cambiato da allora.
Dobbiamo aspettare circa un’ora prima che il prossimo pulmino si riempia come ‘n ‘ovo per portarci a Negril; nell’attesa osserviamo i banchetti degli autisti che giocano a domino, una specie di dama caraibica.
Ogni volta che uno degli orchi butta sul tavolo il suo tassello, schiocca un botto che sembra uno sparo: “Bomboclàt, Raathid, me win!” “Che figo, ho vinto!” ci traduce un locale… raathid (o raatid) dal patois (il dialetto creolo) esprime un moto di gioia, come dire “Che bello, che figo” ma che è ‘sto bomboclat? Quando lo chiediamo al tipo, si sganascia dal ridere, per cui lo interpretiamo come un rafforzativo per esprimere un avvenimento positivo, piacevole… intanto arrivano i passeggeri, e un drappello di omoni in camicia e calzoni a righine come quelli dei carabinieri, si sbraccia e litiga con gli altri per accaparrarsi più clienti possibile; sono gli “hustler” (sollecitatori, un termine usato spesso anche per definire gli spacciatori) ognuno lavora per un pulmino diverso, il loro compito è quello di strappare i viaggiatori alla concorrenza, con qualsiasi espediente necessario… le donne sono prese per mano, specie se carine, o abbracciate, e alle gentili orecchie vengono mormorate paroline dolci, come se facessero loro la corte… solo per convincerle a salire sul proprio mezzo. Il compito degli hustlers è anche quello di riscuotere il pedaggio, a bordo dei fragorosi e sovraccarichi veicoli; di solito prendono i soldi poco prima che il passeggero scenda, non ci sono fermate prestabilite, sono tutte a discrezione del viaggiatore, che deve urlare a squarciagola, per sovrastare la musica a palla, quando è la sua ora: ”One stop, driver!” – Autista, fermati ora! – L’Hustler non ha corporatura ossea, è fatto di gomma, per lasciare più spazio possibile ai clienti, si plasma sulle forme interne del mezzo, si spalma sopra la portiera, come maionese dentro un panino, la quale rimane aperta per guadagnare qualche centimetro vitale… Gommaflex brandisce nel pugno chiuso una rosa di soldi, i cui petali sono le banconote da 2, 5, 20, 50, 100 dollari giamaicani (JA$), che raffigurano l’effige degli Eroi nazionali. Allora un dollaro USA al cambio valeva 18 Ja$, oggi il rapporto è 1 Usd = 105 JA$ e ci sono pure banconote da 500, 1000, fino a 5.000… ma anche questa è un’altra storia… ccià.
A un certo punto, gli Stimolatori cominciano a urlare tra di loro inveendo, e due afferrano un coltellaccio che puntano contro gli avversari… “ecco fatto” dico agli altri, “mo’ ce scappa pure er morto…” invece dopo qualche minuto di urlacci, gli omacci si mettono a sghignazzare, era tutto uno scherzo, e urlano di nuovo “BOMBOCLAT” al che catalogo definitivamente il termine ignoto nelle fila delle parole gioiose… ma non è finita qui, è chiaro.
Negril: bomboclàt at evening
Arriviamo a Negril verso le 10 del mattino; la spiaggia lunga 15 Km, bianca come il talco, tanto spintonata dalle agenzie di viaggio planetarie.
Kilometri anche di albergucci, villette e pensioni familiari, non è ancora il tempo dei mastodontici all-inclusive ingoiagonzi dei tempi moderni… per fortuna! Anche se di controindicazioni, tipo turismo “No Alpitur, ahi ahi ahi!!!” ce ne sono parecchie, come elencate nella prima parte di questo mio sfogo scrittorio.
Troviamo posto presso un’onesta guest-house di miti pretese, il Moonrise, la Luna che Sorge, nome romantico che prende a prestito quello della proprietaria Moonie, una cicciona che passa attraverso stati emotivi multipli, dall’ “I love U all” al “Vi ammazzo tutti brutti stronzi”, i quali cambiano di ora in ora, quando va bene… le camere non hanno la tv, che è ancora un lusso riservato per le strutture più care, ma in compenso al piano di sopra c’è una piscina sulla terrazza condominiale, nel cui angolo è piazzato il bar, con dentro una bella televisione a colori che riceve anche i canali americani… quando saliamo per prenderci un drink, tutti gli sgabelli sono occupati dal personale e dai perdigiorno locali, che seguono con religioso silenzio l’ultimo film di Stallone; in realtà il pubblico deve assoggettarsi agli umori instabili di Moonie, dato che il collegamento centrale è lo stesso di casa sua a cui, con sistemi di fortuna, è allacciata anche la tv del bar. Se Moonie si rompe di vedere Stallone, click, e il ns Eroe sparisce, per far posto ora a una melensa telenovela, ora alle news locali.
Ogni cambio di canale, deciso da Sua Emittenza, viene accompagnato da borbottii di malumore e dai continui “Bomboclàt” di protesta, il che mi fa pensare che la dolce parolina gioiosa, catalogata come tale a Sav, forse nasconde risvolti ancora inediti. Son stato due anni al Moonrise, finito il mio tirocinio turistico, come novello imprenditore in prova, e non ricordo mai di aver visto un film fino alla fine presso la filiale della tv di Moonie.
Comunque non siamo venuti fin quaggiù, dopo 100 ore di viaggio, per vedere film, ci mancherebbe altro.
Quando finalmente ci affacciamo sulla porzione di spiaggia davanti all’hotel, la bellezza del mare, con i suoi colori che sfumano dal verde smeraldo al viola, fino al blu cobalto, la finezza della sabbia, che non si attacca al corpo tipo colla Vinavil, (come invece fanno quelle giallastre, intrise di petrolio e derivati, di Ostia e Fregene) ci mozzano il fiato. E quando dal bagnasciuga delle stupende fanciulle creole ci salutano invitanti, coperte solo da ritagli di stoffa, (al contrario di quelle con la puzza sotto il naso delle sopracitate spiagge romane che ci guardavano schifate come bacarozzi stercorari) ci sembra veramente di stare in Paradiso, senza esser dovuti prima morire, sperando poi di passare la selezione, stile discoteca di Mastro S.Pietro, per essere ammessi aldilà dei cancelli dell’Eden. Solo che qui non ci sono asessuati angeli e chierichetti che suonano l’arpa, bensì un’altra categoria di cherubini, che il sesso ce l’ha, eccome.
Facciamo ritorno alla pensione solo dopo il tramonto, costretti alla fuga dai micidiali “sand fly”, i vampirici moscerini delle spiagge caraibiche, che si svegliano al crepuscolo e ti pungono tutte le parti del corpo, comprese quelle coperte da calzettoni e costume, perché sono talmente microscopici da infilarsi anche tra le fibre dei tessuti.
A un tratto, dal cancello vicino, escono degli energumeni che fronteggiano altri esagitati della porta accanto.Tutti brandiscono coltelli, pietre e soprattutto il micidiale machete, la sciabola per tagliare la canna da zucchero di fabbricazione brasiliana, che in realtà è più spesso impiegato come arma bianca. Lo scontro è breve, ma sanguinoso, uno dei contendenti viene ferito di brutto, mentre una fitta pioggia di sassi e bottiglie lanciate da entrambi gli schieramenti, ci costringe a cercare ripari improvvisati. Siamo nel bel mezzo di un “feud”, una lite violenta di vicinato, che accade soprattutto nei ghetti di città; però oggi è il nostro giorno fortunato. Tra una pietra e l’altra, vengono lanciati anche insulti atroci, che coinvolgono l’intero albero genealogico dei partecipanti, conditi da continui e incessanti “BOMBOCLAT”, al che finalmente capisco che la parolina può esprimere gioia e stupore, ma anche trasformarsi in parolaccia o bestemmia, preludio di liti e attacchi anche mortali. E che se questo è il Paradiso di palme e angeli carnali, può anche mutare velocemente in un Inferno, con diavoli armati di machete al posto del forcone. E’ la giacca double-face del guardaroba tropicale.
De Buss: Bomboclàt at nite
I divi del reggae post-Marley degli anni ’90, Dennis Brown, Gregory Isaacs e via cantando, concedono il loro prezioso repertorio canoro agli spilorci proprietari dei club di Negril solo con il contagocce. Per cui, se vuoi sentirli dal vivo senza morire di sonno, tanto vale che ti fai un bel pisolino dopo cena, e metti la sveglia verso la mezzanotte, come Cenerentola.
Se va bene, daranno inizio alla loro striminzita mezz’ora di spettacolo, solo dopo l’una del mattino.Non sapendolo ancora, ci affacciamo ai cancelli del De Buss, uno dei più vecchi reggae shows della Giamaica, intorno alle 23.
Dopo aver dribblato il solito codazzo di scrocconi e Pay-me-a beer, arriviamo al bar. Gli sgabelli sono ancora vuoti. Le Orsoline (*) giamaicane sono tra le più rigorose dell’Ordine. Così come le vere monache di clausura, i loro abiti e le loro abitudini sono regolati da una routine intransigente. Invece di velo e sandali, il guardaroba giamaicano è il seguente:
Capelli: Parrucche imperiali alla Maria Antonietta (o meglio Madame de Pompadour, più indicata nel caso specifico).“Extension” vertiginose, con dread e boccoli che possono arrivare fino al sedere, di capelli veri o artificiali, secondo le possibilità economiche.
Unghie: vanno da sempre alla Freddy Krueger, lunghe almeno 10 cm e affilate; utilissime in caso di rissa, meno indicate per l’igiene intima. Colorate a piacere, anche una diversa dall’altra.
Dress: il Dress Code (codice di abbigliamento)è severissimo: corpetto(top)di almeno due misure inferiori, per strizzare come limoni i seni, fino a farli quasi scoppiare; indicato per ingannare il pollo in caso di gravidanze multiple.
Gonne o pantapelle attillati alla morte, per mettere in mostra le natiche, già prominenti per natura. Più che sederi a mandolino, qui parliamo di culi a contrabbasso.
Borse: devono essere micro, ma borchiate, possono tornare utili come frombole in caso di rissa ravvicinata, vedi Davide contro Golia. Tanto i soldi si nascondono da altre parti, rossetti e condoms occupano poco spazio.
Maquillage: rossetti rosso sangue o nero antracite, stile Morticia Addams, per incutere il dovuto rispetto. Mascara a litri e ciglia finte alla Bambi sono un Must.
Orari: sono rovesciati rispetto a quelli delle Orsoline classiche, ma comunque inflessibili.
Se quest’ultime si alzano alle quattro del mattino, quelle giamaicane vanno a letto intorno alla stessa ora, dopo le orazioni di rito. La sveglia in questo caso non sarà mai prima delle tre del pomeriggio, e l’unico orario che coincide per entrambi le categorie è quello dei pasti, intorno alle 18 pomeridiane. Poi mentre le religiose vanno a letto, quelle pragmatiche iniziano le orazioni “mattutine”: prova allo specchio per studiare movenze, sorrisi, ammiccamenti prima del confronto con il cliente; dalle due alle tre ore. La fase trucco e posizionamento capelli ne impiega altre due. Si conclude con l’avvitamento degli artigli, e i bracciali da 1 kg cadauno; finalmente si va al fronte: siamo intorno alle 23, prima da Alfred, il bar più famoso dell’isola, dove si comincia a sondare il terreno, se qualcuna conclude con una “lunga” in anticipo, si risparmierà le ore successive che precedono l’alba, quelle più terribili, in attesa del cantante capriccioso e dei turisti irriducibili. Ovviamente ne deve valere la pena, con un cliente che non sia un “gynaal” cioè uno sparaballe che poi “non cìà‘na lira” alla resa dei conti. Però in genere il Convento si muove all’unisono, si va via all’una e ci si ritrova al locale di turno che ha organizzato lo show musicale. Stanotte è il De Buss.
L’urlo da animale sgozzato che scuote il torpore dei sonnolenti, mentre attendiamo l’artista sul palcoscenico, proviene da una delle “anziane”, e conferma i rischi di questa missione a volte ingrata; dopo un’intera nottata spesa alle calcagna di un canadese, dall’apertura dei bar fino adesso, una volta appartati, il signore distinto si rivela una sòla, un “gynaal” appunto, che oltre a tutto ha pure consumato; rimasto senza soldi pensava che i suoi drink sarebbero stati sufficienti per una notte d’amore; e mal gliene coglie, i “Bomboclàt” fioccano come la neve su Mosca d’inverno, solo l’intervento dei security evitano al disgraziato sfregi permanenti, ma se vorrà continuare la sua vacanza, è meglio che si affretti subito agli sportelli del Bancomat locale.
(*)Prostituta, vedi prima parte.
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Quando alla fine della vacanza torniamo a Sav per il pulmino che ci porterà all’aeroporto di Kingston, noto un barbone, un “mad man” come li chiamano qua, che mentre trascina i suoi stracci “bomboclatta” come un matto, per l’appunto. E per un attimo mi passa davanti agli occhi l’immagine dei tanti nevrastenici “civilizzati” che imprecano furenti camminando, sembra che parlino da soli, in realtà si rivolgono a qualcuno nell’auricolare del telefonino nascosto.
E mi accorgo che in fondo non c’è molta differenza tra i due: il “Mad Man” del III mondo e il “Mad Man” tecnologico; entrambi folli, ma almeno il primo non si rende conto di nulla, mentre il secondo magari pensa di essere un uomo realizzato. E’ solo un’illusione che sfiora il delirio schizofrenico. Negli States lo chiamano “delusional state”. Basta la parola.
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E quando ci avviammo mesti, atterrati a Mosca per l’ultima notte di scalo, di nuovo verso le porte del nostro Gulag, un ghigno di trionfo illumina il mio volto: stavolta potrò sfogarmi senza correre il rischio di essere arrestato. Appena comparirò di fronte alle nostre aguzzine, un solo grido uscirà dalle mie labbra: BOMBOCLAT!