Il lupo della steppa australiana
Venerdì mattina. Squilla il cellulare mentre sono al lavoro. Esco dall’ufficio per cercare un angolo appartato: “Laura? Congratulazioni, sei stata assunta per questo nuovo lavoro, ti aspettiamo lunedì per il training”. Finalmente posso fare il salto e provare un’altra strada in questa Australia che un po’ è per i pazzi, come me, e un po’ per chi vuole semplicemente cambiare vita e passarla qui, con un lavoro, una casa, una famiglia… eh, hai detto niente. Mi spiegherò meglio fra qualche riga.
Avviso il mio supervisore che non potrò più fare parte del team, e poco importa visto che non ho contratti e, come tutti qui, d’altronde, c’è chi viene e c’è chi va, senza problemi o impedimenti di alcun genere. Alle cinque timbro l’uscita dall’edificio con l’impronta digitale del mio pollice e mi dirigo a casa. Un po’ con la paura che non mi vengano retribuite le ultime due settimane lavorative, passo il weekend raccontando alle nuove persone che sto conoscendo qui tutte le traversie dell’ultimo periodo. Tutti mi dicono che ho fatto bene, in fin dei conti sono qui per “provare”. Cin-cin con una birra, di cui non sono mai stata amante, e keep calm e aspetta lunedì.
Lunedì. Mi alzo prima del solito perché non posso più approfittare della mezz’ora dal suono della sveglia, passata nelle settimane prima a crogiolarmi sotto le coperte perché il posto di lavoro dista a sole poche decine di minuti di passeggiata dalla mia umile dimora. E’ il primo giorno del nuovo lavoro, o meglio, il giorno di training, quello in cui, tra le altre cose, la prima impressione e il savoir-faire sono il tuo biglietto da visita. Arrivo in sede e incontro i ragazzi con i quali avevo condiviso il colloquio di gruppo la settimana precedente; ci sorridiamo e cominciamo. Tecniche particolari, frasi da imparare a memoria, lettura delle espressioni dei passanti, slide sulle organizzazioni per le quali dobbiamo lavorare e raccogliere fondi. La giornata termina con un mal di testa a livelli cosmici e la voglia di andare a casa. Il badge è carino, mi danno maglietta e raccolte di informazioni. All’indomani si comincia.
Martedì. Per motivi che non starò qui a spiegare per non tediare più del dovuto coloro che sono testimoni di “Laura e le sue disavventure” (marchio registrato), la sera prima non avevo potuto addormentarmi ad un’ora decente, e il mio fisico ne risentiva pesantemente. Trascinando piedi, gambe, spalle (tutto insomma) fino al bagno in fondo al corridoio, avverto un odore acre e nauseabondo arrivare dalla cucina. Mi guardo allo specchio: occhiaie. Ottimo. Vado in cucina: piatti da lavare. Fantastico! Considerato che non sono i miei, di piatti, e che devono aver ospitato pasta all’aglio e altri intrugli simili poco facilmente digeribili, ecco spiegato il puzzo, dopo una notte passata a macerare nel lavello e sopra la tavola ancora preparata. Sarebbe poco male se non fosse che, per poter fare colazione, devo comunque lavare i piatti per poter utilizzare uno dei quattro utensili che ci sono gentilmente forniti e compresi nell’affitto. Mezz’ora persa a fare pulizia e rischio di perdere la metro che mi porterà in centro. Laura, resisti. Arrivo a destinazione dopo un cambio treno preso al volo. Il tanto loquace collega, che il giorno prima scherzava e ci intratteneva logorroico, fuori dalla stazione in attesa del capo, al mio “Hey, how are you? Coffee, coffee, coffee!” mostra un’espressione di fastidio ma mi asseconda, e mi dice che non è sicuro di questo lavoro. Olé! Incontriamo chi di dovere; diamo inizio alle danze. Una nostra collega viene allontanata dopo pochi minuti senza alcun motivo. “Consegna la maglietta: sei licenziata”, basiti diciamo “Ma non ha fatto nulla!”, ci viene risposto “Non mi piaceva”. Long story short, – letteralmente per farvela breve – è l’ennesimo lavoro-truffa-presa in giro. Ce ne andiamo dopo poco, delusi, affranti, sconsolati, bagnati dalla pioggerellina fastidiosa che ogni tanto sporca l’aria di Melbourne, ognuno proseguendo per la sua strada. Io, senza più un lavoro. Resto in centro per tutto il giorno perché la voglia di tornare a casa, sedermi a tavola e dover mangiare sola anche se in mezzo ad altra gente (spiegherò anche questo in separata sede) proprio non ce l’ho.
Martedì pomeriggio. Cammino per il CBD, ripasso per i luoghi che avevo visitato i primi giorni sentendoli ora un po’ più vicini, riconoscibili. Mi oriento bene e noto dettagli che non avevo scorto nella fretta delle sfacchinate iniziali alla ricerca di lavoro. Penso inizialmente di iniziare a battere a tappeto tutti i locali e i negozi per trovare un altro impiego entro la fine della giornata. No. Prendi fiato, riprenditi la dignità, e goditi quelle piccolezze che non ti eri nemmeno accorta esistessero. Detto fatto. Passo del tempo in una galleria traboccante di negozi di ogni genere, punti ristoro e decorazioni natalizie. Gli abeti qui sono un pugno in un occhio, ma ahimè, la nostra società è strutturata così. Lasciamo che sia. Dopo qualche ora passata a sgambettare con la musica nelle orecchie pensando al nulla, salgo d’istinto sul primo tram che mi porta a… l’ IKEA. Perché? Perché l’IKEA mi ricorda casa. Sembrerà assurdo ma è così. Entro e sorrido. Mi dimentico di aver lasciato un lavoro per un altro che pensavo sarebbe stato migliore, e di aver perso anche il secondo per una posizione presa per principio e per rispetto della nostra categoria, ché, per quanto macchine da guerra fatte di carne ed ossa, siamo sempre e comunque dei “semplici” esseri umani e dobbiamo rispettarci.
Ci sono oggettini che mi fanno proiettare in un potenziale futuro in un’abitazione che posso finalmente scegliere io come arredare, profumi di roll alla cannella mi ricordano non solo la nostra Ikea, ma anche la mia America, colori che mi risvegliano i sensi, caffè gratis e wifi condiviso. Altro che Nespresso, What else? In questo caso, IKEA, cosa vuoi di più? Ok, non voglio mitizzare troppo quest’attività commerciale, ma vediamola solo come momentanea valvola di sfogo e caldo rifugio per italiani erranti che hanno perso la retta via. Vi garba?
Nella via del ritorno ho finalmente il tempo per riaprire quel libro che sta in una tasca della mia borsa da tanti, troppi, anni e per rileggere i miei passi preferiti ormai impressi nella memoria, tra cui questo: “il vero lupo della steppa, come mi chiamai più volte, l’animale sperduto in un mondo a lui estraneo e incomprensibile, che non trova più la patria, l’aria, il nutrimento” (Herman Hesse). Lo richiudo quando sto per scendere alla mia fermata, mi guardo intorno e ripasso a mente la citazione “Probabilmente non ha mai osservato un lupo vero. In tal caso avrebbe visto che anche le bestie non hanno un’anima sola, che le belle forme del loro corpo nascondono una pluralità di aspirazioni e di stati d’animo, che anche il lupo contiene abissi, anche il lupo soffre.”
Sei in Australia Laura, sarà meglio cambiare libro adesso? Cheers mates!