Verso l’Afghanistan superando l’Amu Darya. Samarcanda-Termiz-Hairatan
Stazione di Urgench, ora del tramonto. Io e Filippo stiamo per rientrare a Samarcanda per dirigerci poi verso Termiz e superare l’Amu Darya in direzione Afghanistan. Per la tratta Urgench-Samarcanda optiamo per un biglietto in platzkart (3°classe) su di un treno notturno. La platzkart, quella stessa classe che all’inizio di questo viaggio, mi ha cullato per cinque lunghi giorni lungo l’asse transaralico tra Mosca e Tashkent. Come nel recedente viaggio il tempo passato con le persone dello scompartimento, sarà di gran lunga maggiore rispetto a quello dedicato al riposo; così tra un bicchiere di vodka in più ed una sana cena a base di pane, noodles e patate mi spendo in svariate chiacchiere, lasciando che il tempo scorra sulla scia delle parole e delle magnifiche storie di queste genti straordinarie. Il mattino presto siamo a Samarcanda e dopo una breve sosta per rifocillarci, ci dirigiamo verso una piccola rimessa di taxi poco fuori dal centro; qua tentiamo di cercare un qualsiasi passaggio verso Termiz, città di confine con l’Afghanistan, dato che essa non dispone di collegamenti tramite bus con il resto del paese.
Arrivati alla stazione di taxi, il caos la fa da padrone: oltre al caldo afoso di Maggio, non riusciamo bene a contrattare per un prezzo giusto, un posto in un taxi collettivo o privato. Dopo qualche tentativo di negoziazione con alcuni tassisti andato a vuoto, riusciamo a trovare spazio su di un taxi collettivo per meno di sei euro a persona, anche se la partenza è prevista per due ore più tardi.
Ci rassegniamo all’attesa dato il prezzo ragionevole ed osserviamo attentamente la situazione circostante; la differenza con altre stazioni taxi/bus per zone dell’Uzbekistan più toccate anche dagli stessi locali è massima. Il controllo della polizia è a livelli paranoici, tanto da decidere di eliminare qualsiasi forma di scambio di merce, per paura che si possano vendere in nero prodotti ad uso e consumo non esclusivamente culinari. Non si deve sottovalutare che questa stazione è il punto di partenza o d’arrivo di molte delle merci e delle genti provenienti dall’Afghanistan e dalla zona di confine, oltre che un buon punto di appoggio e scambio d’ informazioni tra due paesi che hanno sempre avuto problemi d’ infiltrazioni terroristiche di gruppi islamisti radicali.
La polizia, difatti, interviene anche con la forza per proibire ad alcune donne di vendere sottobanco del pane di Samarcanda ed altri prodotti gastronomici caserecci, offerti a chi come noi deve affrontare più di otto ore di traversata.
A mio avviso, il governo uzbeko, con la scusa della preservazione del territorio dal mercato nero, dalle frodi e soprattutto dalla compravendita abusiva di armamenti utili al terrorismo, cerca in tutti i modi di garantire la concorrenza del libero mercato delle grandi aziende e dei negozi ufficiali in ogni zona del paese, con i tipici prezzi fissi stabiliti principalmente dai grandi cartelli d’imprese straniere, iniziando ad eliminare con la repressione più dura, ogni piccola forma di libera vendita dei prodotti artigianali delle famiglie più povere, gettandole così nella povertà più assoluta.
Prima di partire per la città di confine, molte di queste donne verranno arrestate e portate via con la forza nella totale impassibilità dei presenti, non certamente sorpresi dalla situazione sviluppatesi nell’arco delle ore.
Il viaggio verso Termiz è un’ infinita traversata tra monti dai lineamenti crespi e sinuosi, tra terre ai più misconosciute e tra villaggi dimenticati nel bel mezzo d’ imponenti canyon dalle sfumature rosso-arancio, tra i più affascinanti visti prima d’ora in vita mia.
La strada prosegue in un continuo susseguirsi di buche e rischi di incidenti, tra alcune pause compiute per cibarsi e riprendere energia mentre si rifornisce di diesel il povero furgoncino, acciaccato dal succedersi di strade completamente dissestate.
Una pausa durante il tragitto mi rimarrà particolarmente impressa nella mente, grazie alla splendida vista su alcuni piccoli villaggi nelle vicinanze di una remota stazione di rifornimento. Nell’immensa distesa di canyon ed alture che si mescolano al bianco delle nuvole, i rilievi circostanti si fanno sempre più aridi e multicolori, spaziando tra una strada sassosa e scarni greggi di capre guidati da anziani pastori acciaccati dall’età. E’ incredibile come questo tratto di strada da Samarcanda a Termiz presenti così tante differenze paesaggistiche man mano che ci avviciniamo al confine afghano. E’ meraviglioso passare da immensi campi di cotone contornati da piccoli alberi di gelsi, per trovarsi poi su maestose alture brulle e desolate, in un’ esplosione continua di tonalità differenti che lasciano una tratta indelebile nei tuoi ricordi.
Dopo più di otto ore di viaggio, arriviamo a sera inoltrata nella scialba città di Termiz; una località che sembra quasi un abitato sviluppatosi in modo incontrollato, nel bel mezzo del <<far west>> meridionale dell’Uzbekistan.
Ci adoperiamo per ore per tentare di cercare una ATM in modo da prelevare qualche contante, fallendo miseramente; andiamo così alla ricerca disperata di un losco cambia valute del mercato nero tra le lugubri vie del centro abitato,senza riuscirne a trovane neanche uno.
Nella disperazione più totale, ci rechiamo in un anonimo albergo russo del centro città dove potersi riposare con le ultime banconote uzbeke disponibili, in vista del giorno successivo, quando affronteremo il passaggio di confine tra Uzbekistan ed Afghanistan, superando lo sconosciuto ponte dell’amicizia.
La mattina seguente sveglia di buona ora per arrivare il prima possibile alla frontiera che, secondo le informazioni dateci da un ragazzo dell’albergo, segue regole non ben definite e fisse per gli orari d’apertura e chiusura; può difatti accadere che se gli uzbeki aprono il passaggio ad una certa ora, nella parte afghana si chiuda di contro l’accesso poco prima, senza possibilità d’ingresso e di ritorno nello stato di provenienza.
I rapporti tra i due stati sono ancora non ottimali, soprattutto dopo le rivolte contro il governo centrale di alcune popolazioni del sud dell’Uzbekistan e della valle del Fergana, accusate dal presidente Islam di essere esclusivamente di stampo islamista e provenienti principalmente dal vicino Afghanistan; decidiamo di non arrivare tardi al confine non prima aver comprato alcune scorte e degli abiti tradizionali Afghani.
La strada verso il confine, affrontata con un simpatico tassista per metà afghano, ha l’aria di essere un passaggio estremamente controllato. Attraversiamo villaggi semidesertici che si alternano a fili spinati e checkpoint armati dell’esercito uzbeko, fino a scorgere nel cielo uno strano oggetto volante,inizialmente non bene identificato dai nostri sguardi; veniamo così a sapere tramite il nostro autista che quell’oggetto bianco che si aggira minaccioso tra i cieli al confine tra Uzbekistan ed Afghanistan, non è altro che una sorta di drone statunitense che controlla ogni minimo spostamento sul territorio, dando a chi lo guarda una sensazione di tetra oppressione e funesta sorveglianza. Benvenuti al confine con l’Afganistan.
Arriviamo al primo controllo Uzbeko e siamo gli unici presenti; veniamo accolti da tre militari rinchiusi dentro ad una sorta di torretta bunker che ci mostrano con un Ak-47 la via di passaggio verso il primo controllo passaporti; questo primo passo non sarà così complicato e non impiegherà più di quaranta minuti in un caotico scambio di chiamate tra vari colonnelli di guardia, nell’intento di monitorare al meglio la nostra presenza al confine tra i due paesi.
Passiamo questo primo controllo ed accediamo a quello classico gestito dalla polizia di frontiera, già trovato ad ogni entrata o uscita dal paese uzbeko. Dopo avere compilato i due moduli di dichiarazione d’uscita dal paese ed averli consegnati, attendiamo per quasi due ore che il personale addetto ci chiami per lasciarci passare al check up bagagli, rabbrividendo alla vista d’ alcuni cartelloni ricchi di foto di soggetti indagati per presunte attività terroristiche; qua ci vengono fatte alcune semplici domande sulle nostre intenzioni di visita all’Afghanistan, dopo essere stati scannerizzati in tutto il corpo da un apposito apparecchio di controllo. Prima di lasciare il paese dobbiamo ancora ricevere il timbro d’ uscita e presentare nuovamente il nostro passaporto ai militari di sorveglianza del cancello, vicino al ponte dell’amicizia che divide il territorio uzbeko da quello afghano, attraversando il fiume Amu Darya.
Dopo una camminata d’un centinaio di metri in direzione ponte, l’accoglienza nei pressi dell’accesso non è delle migliori; il perenne cantiere per la messa in sicurezza della nuova ferrovia che collega la zona di confine di Akhunbabaev con Mazar-e Sharif è un crocevia continuo di numerosi gruppi di militari uzbeki e di tank dell’esercito che non infondono troppa sicurezza.
L’intero tratto di terra che costeggia il fiume sulla parte uzbeka è un continuo succedersi di fili spinati, torrette di guardia e carri armati di sorveglianza che si aggirano minacciosi tra contadini atti a coltivare i propri campi con la sola sfortuna di essere nati o abitare in uno dei confini più controllati al mondo.
Dopo qualche freddo saluto dei soldati uzbeki di passaggio ed un cerimonioso cambio di guardia, cominciamo ad incamminarci sul lunghissimo ponte che divide i due paesi.
L’adrenalina è abbastanza alta, siamo consci che stiamo per entrare in un paese difficile ed in costante stato di guerra oltre ad attraversare un ponte non privo di pericoli e sorprese; la camminata lungo il “friendship bridge” sembra quasi non finire mai, il mio sguardo passa da un lato all’altro del fiume in ogni istante, soffermandosi spesso a guardare quel terrificante drone americano che sembra seguire ogni nostro piccolo passo.
Ogni tanto incontriamo un militare di guardia rinchiuso nel suo piccolo bunker-torretta che non accenna quasi nemmeno ad un saluto, seguendo i tuoi passi con il suo fucile d’ordinanza; il clima respirato, nonostante nella realtà fosse abbastanza tranquillo, non sembra esserlo nel mio spirito. C’è comunque una certa eccitazione nell’aria, che sta facendo aumentare progressivamente l’adrenalina e la curiosità, data la zona che sto attraversando
Dopo quasi un ora di camminata immersa nel silenzio totale, rotto ogni tanto da qualche folata di vento e dal continuo scrosciare dell’acqua agitata del fiume, si scorge la bandiera afghana alla fine del ponte.
Siamo dall’altra parte del fiume ed un cartello scritto in Dari, Inglese e Russo ti accoglie con un semplice “Welcome to Afghanistan” sovrastato dalla foto di Massud (eroe delle milizie islamiche afghane di resistenza all’invasione sovietica) e del presidente in carica Karzai.
Passiamo per lo strano edificio del controllo passaporti afghano, dove dopo avere scritto le nostre generalità in Dari veniamo accompagnati verso l’uscita della zona doganale di Hayratan per entrare nel piccolo abitato dal quale partono taxi collettivi per Mazar-e Sharif, siamo finalmente in Afghanistan.