Quel diavolo di Salemme
Gustavo ha comprato una pistola. Per difendersi dai ladri dice, mentendo a se stesso. Proprietario di un bar aperto imprudentemente, sa benissimo che i ladri, se venissero, non trovando niente da rubare, e impietositi dai magri incassi, gli lascerebbero probabilmente qualcosa del proprio. Gustavo non sa rubare, non sa evadere, non è un furbo. E’ un fesso, come la moglie gli rinfaccia, e ad ogni caffè consumato dagli occasionali avventori corrisponde sempre uno scontrino. Ma così non si può andare avanti, i debiti sono tanti, la crisi è viva e reale, e tocca farci i conti tutti i giorni. Le rate del mutuo da pagare incalzano. E saltano, mese dopo mese. Uno, due, tre, sei mesi d’arretrato. Non ce la si fa. Il fallimento è dietro la porta.
Ma c’è la pistola. Per uccidere, per prendersela con qualcuno, per fare giustizia sommaria. Magari dell’ufficiale giudiziario, quando si presenterà. Già, proprio di lui, semplice ambasciatore della banca. Non si può ucciderlo, fa il proprio bistrattato lavoro, è un innocente anch’egli. La banca, lei sì, lei la colpevole. Colpevole di strozzinaggio, di stringere il cappio intorno al collo, d’aver insaponato lo scorsoio già concedendo un prestito che – lo sapeva benissimo! – non sarebbe stato onorato. Gli porterà via il bar, col bancone e i tavolini, spazzando tutto via, via i sacrifici, via i sogni. Il colpevole è il direttore, è chiaro. Gli si spari alla fronte, ne sgorghi del sangue, si compia almeno vendetta. Anche se è un semplice responsabile di filiale. Anche gli ordini vengono dall’alto, dalla sede centrale; anche se non avrebbe potuto disattenderli senza essere licenziato. Quindi alla centrale bisogna andare, dal direttore della sede centrale. Che deve dar conto alla Banca d’Italia. Che ascolta gli umori della Banca Centrale Europea. Che risponde alla Merkel. Che dà retta a Obama. E poi la colpa è anche della Grecia, e della bolla economica, e della crisi mondiale, e della primavera araba.
Tutti colpevoli, quindi; nessun colpevole. Il braccio teso a colpire impugna l’arma, non sa chi mirare. Esita, si guarda intorno, tentenna. S’inclina. E il gomito si piega, sempre di più, e punta alla tempia di chi quell’arma imbraccia. Anzi no, alla famiglia di lui, che non lo segue, non lo sostiene, non lo capisce. Che ne dilapida il misero patrimonio, dopo aver fatto deserto dei suoi affetti. Bum.
Gustavo avrebbe ben potuto vendere l’anima al diavolo, che pur gli si era presentato, e ricominciare, avere una seconda chance, una opportunità ulteriore. Non ha voluto, non ha ceduto, e l’epilogo era già scritto.
Come lui, tanti, troppi. Tante, troppe storie così, in questi anni. Storie di gente che non cede, che vende se stessa ma non arriva a vendere l’anima. Perché l’anima è la speranza, è il sogno di un futuro migliore, è la possibilità stessa che le cose cambino.
Quanta attualità in questa storia, narrata ieri al teatro Diana di Napoli.
E’ la vicenda comica, e amara, de “Il diavolo custode”, spettacolo scritto e diretto da Vincenzo Salemme.
Che ha saputo intrattenere con una commedia, che è anche tragedia, e poi ancora, di nuovo, commedia.
Che ha saputo divertire coinvolgendo il pubblico, in prima persona, in gags che hanno l’intramontabile sapore del varietà, appena prima d’introdursi nel proprio esilarante monologo, che attinge senza stancare mai ai repertori più classici del dire comico, alternandoli a momenti di riflessione profonda che ti fan ricordare di trovarti tra le mura d’un teatro.
Salemme ha fatto tutto questo e molto di più, coniugando l’attualità più stringente con un repertorio umoristico d’eccezione, e costringendo il pubblico, praticamente ostaggio di quel suo parlare vernacolare, ad un’altalena d’emozioni che fa scoprire con meraviglia come si possa piangere per le risate sentendo il groppo alla gola, e un istante dopo ritrovarsi a trattenere quel groppo per non versare lacrime di commozione riflettendo sulla sorte dei tanti che, come Gustavo, l’anima al diavolo no, non l’hanno voluta vendere.