La difficile arte del maestro
Il professor Marchesetti era sceso dal letto con il piede sbagliato. Già la discussione con la moglie, la sera prima, lo aveva sfinito. Lei lo tartassava perché era sempre via: un congresso, un simposio, un convegno, una conferenza. Tutto buono per non stare in casa, con la scusa dei doveri nei confronti della comunità scientifica o della necessità degli aggiornamenti. Lei si sentiva sola. I figli grandi erano diventati evanescenti e il marito aveva di fatto rinunciato al ruolo, in un processo che di fatto pareva quasi concordato. Magari era colpa della moglie, ma lei non percepiva la cosa così. Voleva uscire, veder gente e altro ancora avrebbe voluto in casa. Ma lui no. Ormai aveva un vita propria, parallela e, come è noto, le parallele non si incontrano.
A peggiorare il quadro c’era stata la telefonata del collega professor Groppanelli. “Sì lo so, c’è il concorso, ma se si vuole… Non sarà mica la prima volta”.
E ora gli toccavano quelle capre degli studenti. La passione per l’insegnamento era diminuita da tempo. Preferiva le ricerche, gli studi, le pubblicazioni. Sentiva che non riusciva a trasmettere il sapere, in aula vedeva davanti a sé una platea liquida, informe, tragica nella sua festosa ignoranza. E soprattutto non vedeva passione, ansia di apprendere.
Quando arrivava il tempo degli esami il cielo della sua mente si faceva cupo, l’umore passava dalla noia alla suscettibilità iraconda. Anche martedì mattina. Gli studenti capirono subito che la tempesta dei libretti volanti si sarebbe scatenata di lì a poco, scene terribili delle quali avevano sentito narrare e in qualche caso vi erano anche i testimoni diretti, vittime dell’ultimo tzunami. E così fu. Al minimo intoppo un frego sul libretto segnava la fine della speranza.
Uno, due, tre, poi il professor Guido Marchesetti non ne poté più. Si alzò, stette un attimo in silenzio, il tempo di diventare paonazzo, poi si liberò del peso. “Basta – urlò – sono stufo di sentire sciocchezze da gente che crede che tutto si riduca a ripetere quattro appunti dei quali non si è capito niente. Basta, qui si ritorna al merito, l’università non è la scuola dell’obbligo, non c’è l’obbligo di laurearsi. Ci vuole merito. Capito? Me-ri-to-cra-zia”.
Si rimise a sedere. Guardò l’assistente e gli sibilò: “Continua tu”. E se ne andò. Il povero assistente ebbe solo il tempo di mormorare: “Va bene babbo, ci penso io”.