Le connessioni cerebrali
Sottotitolo: elucubrazioni di filosofia spicciola senza alcun fondamento scientifico valido (chiedo scusa agli specialisti in ascolto per qualunque castroneria sarò certamente in grado di partorire).
Quando ho iniziato questa rubrica, tutto immaginavo meno che avrei scritto quattro post, di cui due con contenuti riferiti a qualche telefilm. O forse lo voleva il mio inconscio e di questo me ne scuso, siamo in terapia di coppia da anni.
L’idea di oggi, irresistibile come un cupcake, me l’ha data un altro cult seriale: Grey’s Anatomy.
A dire la verità ho anche pensato di non raccontarvela, questa cosa che vedo Grey’s Anatomy, che un po’ me ne vergogno, ma mi pareva decisamente assurdo iniziare con:
“L’altro giorno, girando una bistecca di bovino sulla piastra, ho pensato di venire a parlarvi delle connessioni cerebrali”.
Quindi: puntata 10×06, Map of you. La voce narrante, che è quella di quel gran pezzo di bovino (Ah! Ce l’ho infilato alla fine, visto?) di Derek Shepard, ci dice:
Quello che sappiamo è che ogni connessione ha la sua importanza. Ogni connessione è fondamentale. E quando non ne funziona una significa che è stato fatto un danno. Quest’insieme di connessioni ci porta ad agire, a scegliere e a comportarci in un certo modo. A volte sembra vada contro la nostra volontà. Ma non è affatto casuale. E’ una mappa di noi stessi.
Prima di capire che questo sarebbe stato il tema del mercoledì, ho pensato: bella fregatura. Se è davvero come dici, caro Derek, che fine fa l’esperienza?
Derek parlava di cervello e io ho capito “vita”. E ho pensato: vero, verissimo. Ci sono atteggiamenti che saremo sempre portati a ripetere, perché fanno parte di noi. È un istinto naturale dell’essere umano: si cerca di mantenere uno stesso schema perché è una routine tranquillizzante, perché te l’ha insegnato il capobranco o perché l’hai imparato da piccolo, hai creato una connessione cerebrale che funziona e quindi ti ci affezioni. Perché è l’unico modo che hai per garantirti una via d’uscita sicura. Scappi, piangi, ti autocommiseri oppure prendi e ti lanci. È la tua comfort zone personale, quella dove nessuno ti tocca.
Il punto è: cosa succede, in quel momento lì, quando fai il solito salto o la solita fuga e quella non funziona? Salti, fuori tempo. Scappi, ma poi ti viene da tornare. Sei lì, hai messo in atto il tuo piano, tutto funzionava come sempre, i tuoi neuroni stavano percorrendo fischiettando a occhi chiusi quella strada e boom. Bloccata. Interrotta. Lavori in corso. È diventata una Salerno-ReggioCalabria nottetempo.
Che fai?
Possono succedere due cose: o piazzi direttamente la dinamite per eliminare il vecchio percorso e ricostruirlo da zero o lo lasci lì, forse non per sempre, ma per la prima di una lunga serie di volte arriverai al punto che volevi raggiungere scavando un’altra strada.
In altre parole: impari. Metti in atto quella pratica vecchia quanto il mondo: ti evolvi.
Fai ciao ciao con la manina a quella tua comfort zone e cerchi di capire come l’hai scavata così bene, perché ora te ne serve un’altra. Perché, che ti piaccia o no, sei andato avanti. E andando avanti, da quando scopri che Babbo Natale è tutta una buffonata in poi, è tutto un infilarsi il cappello da muratore.
Mi è piaciuta un sacco, questa figura della mappa di noi stessi. Mi ha fatto tornare in mente una cosa che ho provato, quest’estate.
Stavo andando a Firenze, passando per la litoranea. Nella mia testa, almeno, nella mia testa doveva essere così, dovevo passare per la litoranea. Non secondo il mio navigatore però, che io seguo con fede cieca fino a una serie di stradine di montagna, sempre più su, che a rigor di logica tutto sono, meno che vicine al mare. Mi fermo. Diminuisco lo zoom.
E vedo la strada più spessa, quella rincuorante, quella che dovevo percorrere perché tutto fosse come l’avevo immaginato, a una falange di distanza. E io sono incastrata in una ragnatela di stradine in cui i rettilinei più lunghi durano giusto il tempo per farti girare lo sterzo.
Quel batticuore. Mi ricordo il batticuore. Che non è paura, in quel momento, a dirla tutta, era più un rodimento per il tempo perso. Ma c’era quel brivido del dire: e adesso?
Ecco, mi piace immaginare la nostra mappa, come quella mappa. C’è una strada che sai, magari hai dei problemi ad arrivarci, ma è lì. E poi ci sono tutti questi sentieri.
E dove vai, tu, a cercare il batticuore?