Falesie D’Africa parte 2°
La terra rossa e ruvida mi impolvera le scarpe mentre la sollevo camminando. E’ caldo oggi, più del solito, anche se per la mia guida Mamadou questi 35° gradi all’ombra sono quasi freddi. E’ comprensibile: se sei abituato a vivere sui 40-42° gradi quando la temperatura scende intorno ai 30 hai qualche scompenso termico. Fortuna che posso già distinguere la casa dell’Ogon che si avvicina piano piano – ho il disperato bisogno che qualcuno mi rovesci una tinozza d’acqua fredda sulla testa, e soprattutto di placare la sete che mi scarnifica la gola.
L’Ogon mi viene incontro sorridendo. Io gli tendo la mano, ma lui la guarda stupito. Mi viene spiegato che L’Ogon è una personalità troppo importante: non può essere toccato, non può lavarsi con acqua, l’unico responsabile della sua pulizia è il Lebè, il serpente sacro che vive con lui e che rimuove la sporcizia dal suo corpo leccandola con la lingua. Certo che per essere un capo spirituale lascia un po’ perplessi: occhiale da sole nero, anelli di bronzo alle dita, e maglietta della Coca Cola sfoggiata con vanto (mi dispiace non potervelo mostrare ma, com’è intuibile, non mi è stato permesso fotografarlo). E’ curioso notare come le iconografie tradizionali, anche qui in capo al mondo dove la globalizzazione non dovrebbe arrivare, si modifichino e si evolvano sotto l’impatto del tempo e dei contatti che si sono intessuti con altre genti. L’Ogon, malgrado sia più simile ad un bagnino o ad un Dj da discoteca, non ha perso nulla della sua precedente funzione ma, al passo con i tempi, ha svecchiato la sua immagine rendendola, diciamo così, più “contemporanea”.
Alcune cose tuttavia non cambiano: i Dogon credono ancora che L’Ogon si faccia pulire dal Lebè. Ho chiesto ripetutamente qualcosa di più nei riguardi di questo rettile domestico e sia Mamadou, che L’Ogon, che altri Dogon hanno tutti risposto allo stesso modo: il Lebè è un animale reale, fisico, che nessuno può vedere perché vive nella casa dell’Ogon e quest’ultimo è l’unico autorizzato ad averci rapporti. Questa storia del serpente suona molto strana per me, ma d’altra parte dimostra che, sebbene le immagini e gli approcci tradizionali possono trasformarsi, l’essenza più profonda delle cose si mantiene, per ricordare da dove si proviene e per continuare a concepire il mondo come un mistero incantato.
I Dogon sono eredi di questa tradizione magica ma, nel mondo moderno, ahimè, non è più possibile vivere solo di magia, per questo hanno dovuto auto-crearsi un sistema economicamente sostenibile che non tradisse il loro passato, ma lo valorizzasse. Così l’Ogon si veste alla Fonzie e incanta i turisti con le storie sul Lebè, mentre gli altri Dogon li intrattengono con danze (una volta rituali e ora commerciali), e con i loro mercati di maschere che fanno la gioia delle signore inglesi appassionate d’arte africana. Il discorso meriterebbe un articolo a parte ma, in questa sede, basti sapere che se è vero che i Dogon hanno dovuto rinunciare ad una parte della loro ritualità per la commerciabilità, è altrettanto vero che in questo modo hanno avuto la possibilità di crearsi un futuro, di continuare a sopravvivere come popolo e di migliorare le proprie condizioni di vita. Il rito quando diventa
commerciale non sempre perde il suo valore intrinseco e spirituale, ma in certi casi può diventare qualcosa di più ricco e articolato, restando un valore importante e allo stesso tempo qualcosa che aiuti a migliorarsi e a stare meglio. Immaginate se I Dogon avessero mantenuto un completo isolamento e la loro tradizione non avesse dialogato con tante altre; oggi sarebbero al cento per cento della misticità che tutti noi vogliamo vedere nei popoli indigeni, ma nessuno si accorgerebbe di loro e probabilmente sarebbero già scomparsi.
Uscito dalla casa dell’Ogon la mia attenzione viene attirata da un gruppo di voci che risuonano pari a macigni sonori sulle pareti della Falesia. Sembra ci sia un litigio in atto, o qualcosa di simile. Mi avvicino alle voci e la scena che mi si presenta è molto diversa da quanto mi immaginavo prima.
Sono davanti al Togounà infatti, il tribunale dei Dogon. Questo spazio, presente in ogni villaggio, è riservato agli anziani per discutere di varie problematiche e questioni riguardanti la comunità. E’ una specie di capanna, senza porte né finestre, sorretta da un tetto bassissimo e tenuto insieme da legno e cordame. Gli anziani si riuniscono sotto questo tetto opprimente che non consente loro di alzarsi in piedi a meno di non sbatterci la testa contro. Questo metodo, dice Mamadou, è utile per evitare che qualcuno si scaldi troppo e tenti di sovrastare le voci altrui. Effettivamente, quando ci infervoriamo su di una discussione, tendenzialmente abbiamo un istinto naturale ad alzarci in piedi. Nel caso del Togounà questo problema è risolto, garantendo il perpetuarsi e il mantenersi dell’armonia politica per generazioni. Non sarebbe male beneficiare di questo metodo anche in Italia, in certi ambientini romani che tutti conosciamo per i litigi infuocati e il continuo tentativo di prevaricazione di una parte sull’altra.
E’ ormai sera, la temperatura rovente si è abbassata, e un odore dolce pervade la falesia. Salgo sul tetto della casa a me assegnata e mi infilo nel sacco a pelo. Sopra di me solo il cielo africano che stanotte non è abbagliato dalla luce della luna che, per quanto magnifica, nasconde quanto questo cielo ha davvero da offrire. Un’ esplosione di stelle e costellazioni a coprire ogni macchia nera rimasta di fuori, e la linea di spuma bianca della Via Lattea a falciare la volta celeste come una parete tagliente di gas e materia pulviscolare.
Il cielo africano è così denso, luminoso e affollato da avvolgermi e investirmi con violenza docile e pacata. E’ come un lenzuolo rigonfio che mi precipita sulla testa a velocità supersonica mescolando e confondendo ogni dimensione reale o immaginaria attraverso la quale mi sono ritrovato a vagabondare, a ridosso della punta ingioiellata di queste Falesie d’Africa.