¡Hola profesor!
¡Hola profesor!
Professori universitari, questi sconosciuti.
O almeno da studentessa italiana la pensavo così; in Spagna pare sia comune rivolgersi ai propri professori chiamandoli per nome: “Maria, ¿Puede repetir, por favor?” e in generale reputarli esseri umani senza timorose esitazioni.
Dopo il secondo mese di corsi e vita d’ateneo credo di essermi abituata alla cosa –che ora mi sembra naturale e giusta all’inverosimile–, ma mi son chiesta perché all’inizio fossi rimasta spiazzata.
E capirlo non è stato difficile: nella realtà universitaria dalla quale provengo il rapporto docente-studente è piuttosto bizzarro.
Ho rievocato per sommi capi la mia carriera universitaria italiana notando con un po’ di sorpresa –e abbastanza rammarico– che per alcuni insegnamenti il rapporto col professore è stato completamente assente, o quasi.
A volte si è limitato all’ascolto del sibilo della sua voce il primo giorno di lezione: aiutata dal microfono riusciva a districarsi fra i tanti banchi e arrivare li giù, in basso, fino al pavimento dove ero seduta.
Altre volte è stato più approfondito, penso grazie alle visite individuali in orario d’ufficio.
Altre volte invece si è limitato a uno sguardo veloce in sede d’esame, il tempo di agguantare il libretto dalle mani dell’assistente e scarcerarci sopra un po’ d’inchiostro a forma d’iniziali.
Non è carino, lo so, ma succede.
Troppe mail sono cadute nel buco nero della corrispondenza senza risposta, troppe volte il numero di studenti evidentemente troppo elevato ha pregiudicato quello che sarebbe potuto essere uno scambio di opinioni e idee più sentito, più cordiale, che trotterellasse qualche passo più lontano dalla cattedra.
Tenendo conto che la mia possa essere una personalissima opinione figlia di accidentali conseguenze, la comparazione con la nuova realtà universitaria è stata comunque squillante.
Classi con un numero di alunni ridotto, risposte alle mail anche ad ore improbabili della notte, tutorial prestabiliti col docente, scambi di informazioni e idee su eventuali borse di studio, suggerimenti da cinefili…
È stimolante sapere che l’educatore che ti sta di fronte conosce il tuo nome e magari condivide uno o due interessi con te. Penso sia un collante forte, necessario; penso che inspessisca la struttura-scheletro del rapporto di condivisione della conoscenza che un buon insegnamento dovrebbe instaurare.
Affinché non si tratti solo di nozioni e ossa spigolose, ma di storie di vita e morbida abbondanza.
Non ho scelto l’Erasmus per collezionare righe piene dentro una tabella; la parte migliore è sentire di star camminando nella direzione giusta, percepire il proprio miglioramento, accumulare esperienza e storie, ritrovarsi nell’altro.
Come se stessi rubando un chicco di riso da persone diverse, fra una cerveza, un papel e una charla.
Perché non sentirsi un numero è una sensazione proprio bella.
¡Va de mùsica!