Quando anche la voce nella tua testa tace
Nel mezzo del cammin di Melbourne vita, mi ritrovai in una stanza oscura, ché la diritta via era decisamente smarrita.
Sabato sera, quando hai centinaia di alternative tra cui scegliere (più o meno nessuna) ti viene proposto di andare al club, entrata gratuita, perché accompagnata da un amico, persona riconosciuta, nel locale. Fai due calcoli: sei senza un centesimo da una settimana perché il primo stipendio che già ti era stato consegnato in ritardo di parecchi giorni tramite assegno, non è ancora disponibile concretamente nel conto in banca. Ottimo! Per qualche giorno dai fondo alle poche scorte che trovi nel frigo e nel mobiletto della cucina, centellinando anche le briciole; percorri i soliti chilometri a piedi perché, ovviamente, non puoi permetterti i mezzi di trasporto, e quando ti si apre la possibilità di fare qualcosa “gratis” la vocina nella tua testa ti suggerisce “Perché no? Faccio un salto”. Non si può evitare di ascoltarla, non si può ruotare il comando del volume e metterla a tacere. Lei è sempre lì, e tu non puoi fare altro che sentire ciò che ha da dire. In realtà il tutto sta venendo romanzato al fine di esaltare il distacco che giungerà alla fine, perché c’è un’idea da rendere e mi piacerebbe venisse realizzata come è stata percepita in carne ed ossa. Raccontarla non è semplice. Vedremo perché.
Trak Music Lounge and Bar. Raggiungiamo l’entrata a piedi con il vocio delle persone in fila che ci vedono passare per il corridoio dedicato ai VIP, che è chiaramente destinato a cercare di capire perché, tre personaggi alquanto ordinari, impostati troppo casual per certi luoghi, stiano scavalcando tutti senza problemi. Al check-point ci accoglie una ragazza che non trova i nostri nomi in lista, precedentemente riferiti per telefono a quello che è il vero VIP del caso, amico del nostro amico, e che si scoprirà alla fine essere solamente… il DJ. Cominciamo bene. Dopo cinque minuti ci raggiunge Mark, italiano di origine (ma va? che strano!) con in mano i braccialetti per passare al piano superiore dove ci sarà free bar (bevande gratis) e una migliore visuale dello stage; sì va bene, della consolle! Li indosseremo solo più tardi, non capisco perché, ma mi va bene rimanere nell’anonimato; farebbe specie vedere tre persone in jeans e maglietta – in mezzo ad una marea di gente laccata e tirata a nuovo, con tacchi 25 (i tacchi dodici sono datati), abitini short, molto short, quasi stile nude, e giacche e cravatte,- indossare il braccialettino così poco umile. Prendiamola con leggerezza. Scendiamo le scale, la musica si fa più forte e ritmata, e fine della storia, mi giro e torno a casa. No!Non è vero! Continuiamo. Siamo in discoteca. Sala dance, – o techno, o commerciale, non lo so, è passato troppo tempo dall’ultima volta in cui avrei, forse, potuto riconoscere certi suoni, – il nostro amico VIP sta suonando. Il locale si riempie di personaggi giunti direttamente dalla Melbourne Cup: un evento che qui è public holiday, festa nazionale, una gara di galoppo all’ippodromo di Flemington dove la gente va per sfoggiare abiti eleganti, cappelli, frou-frou, pizzi, e quant’altro, per fare public relations, esibire il loro status sociale e fondamentalmente, sfondarsi di alcool.
Si alza un boato dal fondo; immersa nei ricordi risvegliati dai suoni dei pezzi più vecchi che accompagnavano alcune serate di festa estiva qualche anno or sono, non mi accorgo che è entrata la guest star della serata, tale Havana Brown: una ragazza molto bella, alta all’incirca un metro e sessanta, minuta, che fa la DJ e canta sulle note (se i tunz tunz e wua wua sono note…) delle sue creazioni. Pubblico in delirio, la morte è vicina. No, nemmeno stavolta sono seria, cerco di sdrammatizzare, e facendo un po’ la stupida, suggerisco ai miei compagni di avventura di fare quattro salti e, ormai che siamo lì, di cercare di divertirci con risate gratuite e brindisi “alla leggerezza dell’essere“ (magari non in stile Milan Kundera, che è meglio).
Il tempo trascorre velocemente e l’ora di risalire in macchina con direzione casa – letto – cuscino giunge benvenuta. Il martello e l’incudine all’interno dei miei padiglioni auricolari hanno nel frattempo intrapreso una discussione vivace tra di loro, e questa sensazione di Motopic ai lati della scatola cranica mi tormenterà per tutta la notte, lo so già. Succede ogni volta al ritorno da un locale con musica ad alti decibel o dai tanto amati concerti live. Il destro è molto più incattivito del sinistro, da quella volta in cui, buttandomi con il paracadute, mi era scoppiato il timpano: “eh, dovevi compensare inghiottendo saliva” mi dicono gli esperti paracadutisti, una volta atterrata. Ecco, se magari me lo avessi detto prima di spingermi fuori da un aereo a 4500 metri di altezza, con caduta libera seguita da repentina apertura del paracadute – rea della mia lesione, sarebbe stato meglio. Grazie lo stesso. Beh, tutto sommato, la serata non è stata un disastro, anzi direi alquanto piacevole, e dopo tanto tempo, è simpatico riascoltare certa musica.
Vista l’ora, e la differenza di fuso orario ne approfitto per controllare cinque minuti la posta, al computer, e mi siedo sul letto. Ho un messaggio da un carissimo Amico che avevo sentito qualche giorno prima per chiedergli come stava, perché sta facendo dei controlli dopo mesi di dolori che si pensava fossero dovuti allo stress e al troppo lavoro. “Maluccio ciccia” inizia a leggere la voce nella mia testa, riproponendo in automatico la sua voce “ritorno in ospedale ed il 12 subirò un delicatissimo intervento che spero poi di raccontarti, devo essere operato di Whipple (google-atevi il termine o guardatevi Grey’s Anatomy) ho quella cosa brutta. Un abbraccio”.
In testa non sento più niente, la voce si è ammutolita, l’atmosfera è diventata ovattata e gli occhi si sono gonfiati di lacrime. Maledetta distanza, io ti odio. Così come tutto quello che ha causato il mio trasferimento qui.
“Tranquilla, ce la faccio.”
“Sì, non fare scherzi!”
Silenzio… e ammirazione.