L’animale è L’Altro
Animali: da secoli presenziano con vari ruoli nelle narrazioni scritte e orali.
In particolare oggi, però, mi piace pubblicare l’intervista fatta a Luciano Lamberti. Perché l’autore argentino, nel suo ultimo libro “Il pappagallo che prevedeva il futuro”, edito in Italia da Gran Via edizioni, parla di animali ma poi, in sede d’intervista, mi riporta più e più volte il rispetto che nutre per quest’alterità. Rispetto che nel giro di pochissimi giorni ho visto infrangere con una leggerezza inconsulta in ben due casi: quello del suicida che si getta fra i leoni e della mamma a cui cade il bambino nella gabbia del gorilla. In entrambi i casi, per la disperazione folle di uno e per la sbadataggine imperdonabile dell’altra, a rimetterci sono stati gli animali. Leoni e gorilla morti senza un perché.
Ma metto da parte l’amarezza e riporto lo scambio con Lamberti, autore eclettico che nei suoi racconti si mette continuamente alla prova con stili, trame e generi diversi, mantenendo una solida e radicata personalità narrativa.
1. Partiamo dal titolo: c‘è un legame fra il dipinto del Guggenheim “Il pappagallo che prevede il futuro” (J. Cornell) e il titolo dato al racconto e al libro? È stato un punto di ispirazione?
Non conoscevo questo dipinto, mi è piaciuto molto. La mia ispirazione è più pedestre: il vecchio pappagallo di una zia, la cui capacità di parlare mi terrorizzava. Lo vidi quando ero bambino ma non l’ho più scordato. E poi, ovviamente, il racconto di Flaubert (“Un cuore semplice”, ndT)
2. Un tema centrale nei racconti è quello dell’identità. A dare effetti simili alla droga è proprio la fusione del sé in altre persone e il mare ne è figura. Vediamo i tentacoli come vincolo reciproco e la forte nostalgia di un’unione primordiale.
L’idea che alcune droghe possono farci scordare la nostra identità, il nostro io, è liberatrice. Chi non si vergogna a volte della propria esistenza? Chi non si annoia di sé? E quale metafora più perfetta dell’amore, nel senso più ampio della parola, che essere uno con tutti? C’è uno stato molto vicino al nirvana nei tossicodipendenti che percepiscono la realtà come extraterrestri.
3. Sempre sull’Identità: da cosa è definita? In uno dei racconti il fratello del protagonista un giorno non è più lui ma una copia, ma a cambiare, come prima cosa, è la sua quintessenza, potremmo dire. Si respira l’alienazione. In base a cosa il ragazzo non è più lui? Come lo percepiscono gli altri?
Questo è un racconto che può essere letto come sociologico, realista o come racconto fantastico. C’è una sindrome, si chiama Capgras, che porta alcune persone a disconoscere i familiari. E c’è un libro di Freud che tratta il tema. In gran parte, quello che siamo è una costruzione di coloro che ci conoscono. Per questo è strano trovarsi con persone di diverse cerchie: ognuno cambia secondo gli altri che ha affianco.
4. Uomini e animali sono posti come due mondi comunicanti. Gli uni si trasformano negli altri. Perché? Simboli, allegoria o la semplice evidenza di una continuità fra i due mondi?
Mi pare che lo sguardo degli animali è per noi impossibile da raggiungere e, per questo, in alcuni sensi è magico. Per tanto che possiamo parlarne, non li capiremo mai. Io scrivo di questa distanza e la possibilità di accorciarla, nella finzione.
5. Sempre sul confine fra simbolismo e realismo magico, chi sono i giganti?
Sono ciò che ognuno vuole che siano. Tutto ciò che è più grande e bello dell’uomo. La mia lettura è soltanto una in più, probabilmente la meno interessante.
6. Da cosa si ispira per i suoi racconti? Le ambientazioni e la geografia non sono legate all’esperienza diretta e biografica, si evince, ad esempio compare la Russia, ma sono tutti mondi paralleli con regole a sé.
Credo che tutti gli scrittori, nella propria vita, si ispirino. Alcuni lo simulano meglio, altri peggio. Io in questi racconti ho provato ad immaginare luoghi in cui non sono mai stato, proprio per tentare un estraniamento dal paesaggio, perché so che in un modo o nell’altro gli avrei comunque dato i tratti della mia piccola città natale, che è quello che finisco per fare ogni volta.
7. Un po’ come Marco Polo nelle calviniane Città Invisibili, insomma, che non fa altro che parlare della sua Venezia.
Forse perché lavoro con i migranti e ho dedicato grandi riflessioni al tema della nostalgia del migrante, ma ho visto degli spunti che mi sembrano essere metafora di questo fenomeno. Penso alla nostalgia che i residenti hanno del mare e a quella dell’orso per la Russia. Alla malinconia dell’orso depresso e con dubbi esistenziali. Cosa ne pensa?
Sono discendente di migranti piemontesi, e questa epica segreta è parte di me, di ciò che ho ascoltato e che sono. La mia infanzia è stata piena di queste storie, soprattutto perché una zia si è fatta carico, in un certo senso, di riesumarle. Tutti siamo migranti, in un certo senso, se non altro in questo pianeta.
8. Gli animali “lambertiani” non sono caricature dell’uomo come nei fablieux francesi che calcavano la mano sui loro vizi e difetti. Al contrario, sembrano esserne la controparte complessa, sfaccettata, lontana dalle semplificazioni satiriche. Perché il ricorso all’espediente animali?
L’animale è L’Altro, sempre. Come qualsiasi figura di divinità. Tentiamo di dar loro tratti antropomorfi, ma sono inspiegabili per noi.