I miracoli del rifugiato che pubblicò un romanzo
Il titolo è ovviamente provocatorio. Teso a far riflettere chi pensa che ad approdare sulle sponde dei nostri mari siano soltanto illetterati, ignoranti e stolti. Mi dispiace deludere coloro che ne erano convinti, ma non è così.
Eppure ancora mancava, nel panorama letterario attuale, un autore che sapesse veramente porsi come mediatore. Non per scelta, non per atteggiarsi a écrivain engagé e supportare la causa, non per aumentare le vendite facendo leva su un tema caldo. Non per analizzare minuziosamente una realtà che ci scorre affianco, senza accorgersi che in realtà invece del microscopio usiamo la lente di un telescopio per mantenere le distanze; non per limitarsi a fare da portavoce dei fatti, narrandoli con una voce tentennante e senza troppa attenzione per la forma letteraria.
No: Abbas Khider non fa nulla di tutto ciò. Riesce a raccontare la sua vita senza fare autobiografia, riesce a parlare del suo passato da rifugiato senza limitarsi alla testimonianza, riesce a fare letteratura senza che la finzione narrativa lo allontani dal compito umano di rendere conto dell’attuale realtà.
Sembra banale ma non lo è: me ne rendo conto io per prima quando, durante le presentazioni del mio romanzo e dei miei racconti o pamphlet, mi trovo rispondere alle domande che mi vengono poste in quanto autrice italo-libanese ma che, appena posso, parlo di loro, dei “miei” migranti, come amo chiamarli. Perché sono loro a meritare -senza ottenerla- voce in capitolo e sono loro che la gente vuole conoscere nel momento in cui mi chiede di storie che a me -mi dispiace sempre un po’ deluderli- non sono mai appartenute. Lo faccio con delicatezza, con educata discrezione scivolo via dal mio passato per raccontare il loro, insieme ai frammenti di presente di cui sono al corrente e che condivido con loro.
Con uno stile essenziale, senza fronzoli, il testo risulta efficace ed arriva dritto dove vuole arrivare
Il compito di Abbas Khider è quello del mediatore nel senso più profondo del termine: il suo trascorso da migrante porta con sé le storie di chi lo ha condiviso con lui, di chi ha compiuto gli stessi viaggi e molti altri, sopportato le stesse fatiche, gli stessi orrori e molti altri. Ma il suo essere autore fa sì che le persone non si sentano più in soggezione di fronte a lui -parlo dell’imbarazzo non meglio identificato degli occidentali di fronte al fenomeno della migrazione- che lo inquadrino come “intellettuale” e lo sottraggano alla casella mentale del “migrante”, alimentando di conseguenza una tendenza a superare il livello strettamente testuale dei suoi scritti per andare oltre, per scavare e cercare di immedesimarsi in una finzione che è ponte fra due mondi.
Quella narrata da Khider è la storia di un amore pieno di ostacoli. Leggendo del protagonista che, nel suo primo viaggio da turista e non da rifugiato, va a visitare a Verona il famoso balcone shakespeariano, mi convinco che c’è un’analogia ben precisa: tanto la storia di Romeo e Giulietta quanto quello di Rasul e della parola scritta sono ostacolati da mille impedimenti esterni. Amori clandestini. Proprio questa clandestinità come condizione costante è il fulcro dell’intera vicenda: è clandestino il protagonista de “I miracoli” nel suo continuo peregrinare, è clandestino ogni tipo di comunicazione ed espressione nell’Iraq da cui scappa. Clandestino il gioco dell’occhiolino, con cui gli uomini stringono taciti accordi di seduzione con le donne, clandestino il traffico di carta che dagli archivi statali è sottratta ed usata dai genitori per incartare i datteri e venderli per strada, clandestino il furto del protagonista di quella stessa carta per farne supporto su cui scrivere. Clandestino il “fremito” incontrollabile che il giovanotto prova vedendo Fatima, sorgente potentissima di ispirazione creativa. Clandestino l’adattamento che porta l’autore, una volta giunto ad Amman, a fare uso della carta dei falafel trafugata di nascosto invece che di quella dei datteri, usata in Iraq.
Non ero un turista. Ero solo un profugo. Un piccione viaggiatore del tutto cieco, che può sì volare, ma non sa mai di preciso dove.
Parole come quelle di Abbas Khider non sono politiche, non sono giornalistiche: sono Arte, e forse in situazioni come quella attuale l’arte rimane uno dei pochi linguaggi universalmente condivisibili, in grado di aprire una strada al dialogo.
“I miracoli” è un libro che andrebbe portato nelle scuole.